Premiazione

 

 

I Vincitori:

 

1° Priscilla Pacetti; 2° Giulia Falabella; 3° Giuseppe Urbani.

 


 

Autori

 

 


 

Opere

Balestra Benedetta

Il coraggio del donare

Questo capitolo della mia vita inizia ad Aprile del 2016 quando, dopo aver effettuato delle analisi del sangue, mi sono ritrovata nel Pronto Soccorso del Policlinico Tor Vergata.
Prima di essere ricoverata d’urgenza e senza avere ancora la minima idea di quale fosse la diagnosi mi venne detto: “Devi fare due sacche di sangue subito”. Ricordo perfettamente di aver chiesto al medico: “Farà male?”. Chiaramente rispose di no.
Quelle due sacche di sangue le ricordo bene: guardai ogni goccia che cadeva per tutto il tempo della trasfusione, immobile, in un letto non mio, in un ospedale da sola per la prima volta nella mia vita. Tutto mi sembrava paradossale e continuavo a ripetermi che non era possibile.
Quanto bene mi fecero quelle due ed altre innumerevoli sacche di sangue e piastrine l’ho capito solo dopo, quando tutto è iniziato ed ho compreso il genere di malattia che avrei affrontato negli anni seguenti.
Non parlo quasi mai della mia storia con nessuno; la leucemia ho sempre cercato di domarla perché non fosse lei a domare me. Ho passato i primi 5 mesi dopo la diagnosi sotto una campana di vetro, poi mi sono data un pizzicotto ed ho ricominciato una vita pressoché normale alternata tra ricoveri e periodi a casa.
Tuttavia la mia storia non credo sia speciale perché è come quella di tante altre persone che, come me, affrontano malattie ematologiche. Tutti abbiamo paura, tutti abbiamo bene o male la medesima reazione verso una diagnosi che mai e poi mai pensavamo di dover subire, tutti soffriamo e sopportiamo le terapie e viviamo un percorso più o meno lungo e difficoltoso. La mia storia ad esempio si può sintetizzare in 9 fasi: diagnosi, chemio, guarigione, recidiva, terapie salvavita, trapianto, recidiva bis, terapia salvavita bis. Oltre due anni e mezzo.
Quello che a mio avviso è importante non è la storia in sé, quanto quello che di buono ne è uscito fuori da questa esperienza che per fortuna va avanti.
Parliamoci chiaro: è ovvio che nessuno, me compresa, vorrebbe ammalarsi, morire, perdere qualcuno, avere dei traumi di ogni genere, ma tutto ciò non è possibile. Solo chi vive nel mondo dei sogni può pensare che la vita sia esente da problemi. Mi è capitato molte volte di svegliarmi e pensare di aver avuto solo un incubo e spesso, guardandomi allo specchio, mi chiedo: “Se potessi lo cancelleresti?”. La risposta è sempre “no”. E questo non è un mantra che mi ripeto per andare avanti, ma è un guardare indietro e un mettere sul piatto della bilancia le tante cose che sono accadute nella mia vita in questi anni: ricordi brutti, ma anche speciali, tanti incontri, emozioni forti, la mia crescita, le mie relazioni.
No, non cancellerei nulla del mio passato perché mi ha dato davvero tanto.
Siamo in prossimità delle feste natalizie ed il mio pensiero non può che andare agli ultimi due Natali, passati nel reparto di ematologia. È durante le festività ed i periodi estivi che ti rendi conto di quanto sia importante la donazione del sangue. Le poche sacche a disposizione vengono distribuite con parsimonia perché il fabbisogno è maggiore della disponibilità. Io non ci avevo mai pensato a questa cosa. Ero lì, in condizioni gravi e con la paura di non farcela; eppure c’era sempre qualche caso più grave del mio, che faceva slittare la mia trasfusione. Ho sempre atteso con fiducia perché sapevo che una sacca prima o poi sarebbe arrivata, anche se con ritardo. Vederla arrivare mi dava un senso di gratitudine verso quel donatore sconosciuto al quale avrei voluto stringere la mano. Lui che, perdendo qualche ora del suo tempo, mi ha regalato una speranza di vita innumerevoli volte.
Durante questo percorso non ho mai amato che qualcuno usasse con me il termine “guerriera”. Non mi piace perché sono giunta alla conclusione che non mi è successo nulla di così particolare. È vero, sto affrontando un percorso molto lungo e difficile, che fa paura, ma non diverso da altre mille situazioni che possono capitare nella vita di tutti i giorni.
I veri guerrieri sono invece i donatori di sangue, perché non passano oltre, perché fanno qualcosa di concreto mettendoci il loro impegno ed il loro tempo. Non deve essere semplice inserire nella propria agenda “ricordarsi di donare la vita” perché donare il sangue, ricordiamolo, è soprattutto un atto culturale oltre che morale.
I donatori sono delle persone che pensano al prossimo, anche se quel prossimo non lo conoscono. Essere donatore vuol dire dare senza avere nulla da pretendere in cambio. E questo loro, i donatori, lo fanno. Loro ci sono e spero che questa piccola storia possa far capire quanto sia importante questo gesto.
Perché donare vuol dire esserci, offrire una speranza concreta, una carezza verso chi sta male; vuol dire lavorare per fare del bene senza fare distinzione alcuna.
Per questo io mi sento molto fortunata nonostante tutto e non cancellerei nulla di questi anni perché mi hanno dato un qualcosa che forse non avrei mai imparato. Perché la vita frenetica di ognuno di noi ci fa dimenticare le cose importanti e solo quando sbatti la faccia contro qualcosa del genere capisci cosa è davvero essenziale. Quindi sono grata non solo a chi dona il sangue, ma anche verso chi dona il proprio tempo a noi pazienti.
C’è una frase di Paulo Coelho che potrebbe riassumere tutto ciò: “Quando si va verso un obiettivo, è molto importante prestare attenzione al Cammino. È il Cammino che ci insegna sempre la maniera migliore di arrivare, e ci arricchisce mentre lo percorriamo.”
Per cui io mi guardo spesso indietro e dico “Grazie di cuore”.

Bonta Leandro

Stringimi la mano

Vi è del freddo ogni qualvolta dono, dell’aria che avvolge il mio braccio scoperto e che scendendo giù raggiunge il palmo della mia mano e il mio pugno poi. L’aria si sposta diventando vento, tutto attorno a me si muove ed io con i piedi a penzoloni mi allontano. L’apri e chiudi della mia mano saluta via il freddo, magari lo stesso che mio padre ha avvertito nelle sue tante operazioni e come lui le persone che ogni giorno sono attraversate dalla stessa sensazione, anche quando l’aria attorno è soffocante; E penso a quante volte avrebbe avuto bisogno della mia mano quanto del mio sangue. Allora mi troverai ancora lì con l’apri e chiudi della mia mano ma questa volta per poter stringere la tua.

Falabella Giulia

Legame di sangue

Prende lo spillo. Freddissimo e appuntito. Si guardano negli occhi, ancora dubbiose se quella sia la scelta giusta. Un patto è un patto, continuano a ripetersi, e c’è solo un modo per sancirlo: il sangue. Marta preme la punta dello spillo rubato dalla cassetta da sarta della nonna Rosa sull’indice sinistro e lo passa a Lucia. Il tempo non sembra passare mai, ma è ora di buttarsi, quindi anche lei si fa forza, chiude gli occhi e imita l’amica. Fa male, ma bisogna trattenere le lacrime, non si è più bambine. Le dita si uniscono. Il loro sangue pure. Una frase all’unisono risuona nel silenzio del parco: “Per sempre”.
Marta e Lucia si conoscono da una vita, da quando entrambe ne hanno memoria. Sono cresciute condividendo tutto: dal pianerottolo, ai giochi, dai drammi adolescenziali, ai primi amori, passando repentinamente per tutte le scuole di ogni ordine e grado. Così diverse e perfettamente complementari, nessuno sa pensare ad una di loro senza l’altra. Le rispettive famiglie se ne sono fatte ormai una ragione, non avendo neanche più le energie per tentare di tenerle lontane, fosse pure solo per il loro bene: insieme sono una forza della natura, ma hanno il medesimo potenziale esplosivo ed è per questo che ne combinano di tutti i colori. Come quando in terza media per un progetto di scienze avevano provato a simulare il comportamento di un vulcano, ma avevano finito per far esplodere il modellino, sporcando di ketchup, mischiato a schiuma da barba e sapone per i pavimenti, l’intera classe, compresa l’insegnante. Senza contare le infinite note riportate a casa dalle due per le chiacchiere fuori posto, sempre troppo frequenti. Ora è diverso però, fanno l’università e sembra quasi che abbiano trovato una sorta di equilibrio, ma sono una l’asta fondamentale dell’altra, senza la quale su quel filo proprio non si riesce a stare. Marta, razionale e concreta, fa Ingegneria: cresciuta tra le formule matematiche del suo papà professore e i bilanci della mamma impiegata di banca, ha dei lunghi ricci neri che le cadono morbidi sulle spalle. È diretta, per alcuni un po’ troppo, orientata al risultato, sempre e comunque, ma con un cuore grande, che spesso tiene nascosto dietro quella corazza che si è costruita con anni e anni di duro lavoro. Mai mostrarsi deboli e vulnerabili, c’è sempre qualcuno pronto a ferirti e così l’unico pertugio lasciato aperto è stato occupato da Lucia. Biondissima e svampita, la testa tra le nuvole per quanto leggera, la sua scelta è stata ovviamente Filosofia, la materia che la affascinava così tanto al liceo, quando passava la ricreazione al bar con il professor Roselli a discutere su chi fosse più potente tra la realtà e il pensiero. Assolutamente il primo per lui, ovviamente il secondo per lei. Il papà di Lucia semplicemente non c’è e non c’è mai stato, come d’altronde una spiegazione a questa assenza, ma la mamma fa per tre, gestendo la sua unica figlia con tenacia e fermezza.
È Lunedi e come tutti i Lunedi Marta aspetta la perenne ritardataria Lucia davanti alla porta. Lo zerbino natalizio le ricorda quanto siano sbadate le sue vicine di casa e mentre sorride chiedendosi se arrivati ad ottobre quell’oggetto sia stato messo troppo presto o troppo tardi, l’amica esce: scapigliata e con il fiatone, porta pranzo, borsa, e zaino con lei per creare il perfetto look dell’universitaria oberata da libri e impegni. Si abbracciano forte e si avviano verso l’ascensore. L’argomento del giorno è ovviamene il weekend: frenetico e rumoroso quello di Lucia, tra discoteche e cene fuori; impegnativo, ma fruttuoso quello di Marta, tra le dispense di fisica generale e gli esercizi di analisi. Indossano entrambe i caschi, decorati con scritte e dediche, che si sono regalate reciprocamente quando Marta ha ricevuto per il suo diciottesimo compleanno il motorino, salgono a bordo e sfrecciano per le vie di Roma. Costeggiano il Tevere e le sue sponde, il fiume della loro adolescenza scorre sempre uguale da anni eppure a loro racconta storie sempre nuove: le estati tra le bancarelle, gli inverni nei pub, i pomeriggi a passeggiare e le mattine a correre per arrivare puntuali a scuola. Ancora lì. Si fermano al semaforo rosso.” A che ora finisci lezione? Magari ti aspetto e torniamo insieme” chiede la solita organizzatissima Marta. Lucia ci pensa un po’ su, prova davvero a ricordarsi programmi e appuntamenti, ma è più forte di lei e la mente va sempre a qualcos’altro che sembra davvero molto importante, almeno fino a quando non lo dice ad alta voce. È in quel momento che si rende conto che forse dovrebbe essere più concentrata, più Marta e meno Lucia.
Eppure nelle vene di ognuna c’è già un po’ di sangue dell’altra, perché quel 5 marzo, quando avevano solo nove anni, hanno deciso di unirsi indissolubilmente e di diventare sorelle di sangue. Erano due bambine, ma per loro quel gesto era da grandi, aveva ed ha tuttora un significato fortissimo. Quando Lucia era caduta dalla bicicletta qualche mese dopo “il legame di sangue” (lo avevano chiamato proprio così), Marta preoccupata aveva temuto che fosse proprio il suo sangue ad essere uscito per primo e ad essere svanito, annullando di fatto il loro patto. A pensarci ora si sente così stupida, ma lei ogni tanto quella goccia di sangue dell’amica la sente davvero in circolo e sono entrambe convinte che sia proprio quella a tenerle più unite che mai. Con il sangue non si scherza.
Arrivano in città universitaria, grande e caotica come le loro menti che nascondono insicurezze e pensieri. Un altro abbraccio prima di separarsi, si seguono con lo sguardo ed entrano ognuna nel proprio enorme edificio. Dipartimento di Ingegneria. Dipartimento di Filosofia.  Lucia entra in aula di corsa, leva cappotto e borse varie e prende posto nelle ultime file, per non disturbare la lezione già iniziata. Marta, dall’altra parte, è ovviamente in anticipo, si siede al primo banco e inizia a sfogliare il quaderno di Geometria. Non si può sprecare nemmeno un minuto, il tempo è troppo prezioso per lei. I professori entrano, spiegano, illustrano teoremi ed eventi storici, le lancette dell’orologio si muovono lentamente, il brusio ogni tanto disturba il silenzio dell’aula, ma niente che con un po’ di autorevolezza non possa essere gestito. Stranamente è Lucia a scrivere per prima a Marta su WhatsApp. “Dove sei? Io finito!”. “Dieci minuti e sono da te: devo chiedere una cosa al prof”. Sempre la solita precisina, pensa tra sé e sé mentre si ferma davanti la bacheca degli annunci e degli avvisi e si perde tra post-it, dépliant, annunci di vendita e richieste di coinquilini per condividere l’affitto. C’è di tutto lì sopra: storie che si intrecciano, parole che nascondono esperienze, vite condivise, domande che attendono risposte ed esperienze che aspettano di essere vissute. C’è anche un volantino della raccolta di sangue che organizzano la settimana prossima, peccato che lei gli aghi proprio non riesca nemmeno a vederli da lontano.
Sono passati i dieci minuti di Marta. Ne sono passati venti per l’esattezza quando Lucia inizia a preoccuparsi: è lei quella svampita e sbadata, che sbaglia orari e posti degli appuntamenti, ma alla sua sorella di sangue questo non succederebbe mai, è impossibile. Da lontano sente arrivare un’ambulanza e questa volta non ha alcun dubbio. Corre verso l’aula dell’amica perché conosce tutto di lei e quando arriva vede il sangue. È inciampata mentre scendeva le scale e poi ha sbattuto la testa su quello spigolo, le dicono indicando qualcosa di troppo lontano e distante. Non riesce a capire Lucia, vorrebbe che tutto quel sangue tornasse al suo posto, che Marta si rialzasse e le dicesse che è tutto uno scherzo. Come ad Halloween in terza elementare quando si erano truccate in modo spaventoso, con tanto di sangue finto e, vestite da zombie, avevano girato per il palazzo per ore facendo Dolcetto o Scherzetto, sdraiandosi sullo zerbino per interpretare meglio il personaggio, ma nessuno aveva aperto e così avevano fatto una scorpacciata di caramelle al banchetto davanti al cinema con le mamme e si erano mangiate tutto davanti a “La sposa cadavere” a casa di Lucia. Eppure in tutto quel liquido rosso sparso sul pavimento, sa riconoscere ancora il suo, almeno fino ad un minuto prima che le lacrime le inizino ad appannare gli occhi.  
L’ambulanza sfreccia sul Lungotevere e Lucia la segue, non si perde nemmeno una curva anche se sente le tempie batterle forte nel casco troppo stretto. Il dolore le segna il viso bianchissimo, ma sa che non può essere ancora una volta quella fragile e da consolare, non ora che Marta è lì dentro e che ha bisogno di lei. All’ospedale ci sono già i genitori di Marta ad attenderle, in evidente stato di shock, ed è Lucia ad avvicinarsi a loro, ad abbracciarli e a dirgli che andrà tutto bene. Gli infermieri portano dentro l’amica, ma loro non possono entrare, sono momenti troppo delicati. Gli scenari peggiori si disegnano nella mente di chi seduto in sala d’attesa vede solo la disperazione di chi arriva e diventa solo un colore, quello della gravità della propria condizione.
Dopo alcune ore, molto più lunghe di sessanta minuti, la notizia arriva violenta, forte, come uno di quegli schiaffi che Lucia riceveva dalla mamma quando era piccola e rubava le merendine dalla credenza o alzava le mani contro un compagno a scuola. Marta probabilmente si rimetterà, ma ha bisogno di sangue, tanto sangue e le disponibilità dell’ospedale non sono molto elevate, soprattutto per lei che è uno zero negativo. Lucia è ancora confusa, cerca di capire e fare ordine nella sua testa sulle nozioni di scienze che la sua migliore amica aveva provato tante volte a farle imparare a scuola. Spiegano che questo significa che può ricevere solo da chi ha il suo stesso gruppo sanguigno, ma i genitori di Marta sono entrambi A. “Posso darle il mio sangue”. Le parole escono dalla bocca di Lucia senza che ella stessa se ne renda conto, più veloci dei suoi pensieri. Sa di aver quel gruppo sanguigno perché in prima media ha insistito tanto con la mamma per scoprirlo ed è stata addirittura disposta ad affrontare la sua paura degli aghi. Si è confrontata tante volte con Marta a tal proposito. A loro sin da subito è sembrato un fatto ovvio e scontato, dovuto a quel legame di sangue stretto il 5 marzo, come se quelle gocce scambiatesi avessero reso il sangue delle due amiche uguale e perfettamente compatibile. Avevano scherzato su quel gruppo sanguigno tanto “generoso e altruista”, così lo avevano definito: poteva donare a tutti, ma prendere solo da quelli uguali a lui, ma adesso tocca a Lucia e lei sa già di essere pronta nel momento esatto in cui segue con passo veloce l’infermiera.
Prende l’ago. Freddissimo e appuntito. Non possono guardarsi negli occhi, ma ora lei non è più dubbiosa se quella sia la scelta giusta. Un patto è un patto, continua a ripetersi, e c’è solo un modo per sancirlo: il sangue. L’infermiera porta la siringa verso il braccio e Lucia si chiede se nonna Rosa lassù ha mai scoperto il furto di quello spillo. Il tempo non sembra passare mai, ma è ora di buttarsi, quindi anche lei si fa forza, chiude gli occhi e aspetta. Fa male, ma bisogna trattenere le lacrime, non si è più bambine. I cuori si uniscono. Il loro sangue pure. Una frase all’unisono risuona nel silenzio dell’ospedale: “Per sempre”.

Falcucci Angela

Morbo di Basedow

Cure, ricoveri, speranze. Dopo tre anni, la risposta dei vari endocrinologhi consultati: tiroide ectomia sub-totale, poi una vita condizionata dall’assunzione perpetua di farmaci. Ma pur sempre vita.
Un ragazzo allegro e ottimista, coraggioso durante i ricoveri quando aveva appena tredici anni, con gli ammalati che, in corsia con lui, lo adoravano. Andavamo a trovarlo il più spesso possibile, guidando tra le fitte nebbie della bergamasca. Un pomeriggio lo trovammo silenzioso: era morto un paziente. Non ci furono parole, ma solo un abbraccio a quel nostro figlio forse spaventato, di fronte a sensazioni più grandi di lui.
E venne il momento di comunicargli la possibilità dell’operazione. Aveva sedici anni, decise con noi di affrontarla.
La preparazione,  l’arrivo del giorno prestabilito.
Noi genitori seduti nel silenzio asettico della anonima sala d’attesa,  lui in sala operatoria; non parlavamo ma c’era una preghiera senza parole che saliva dai nostri cuori.
Quanto tempo passò? Il tempo della speranza non si può misurare con l’orologio.
“Tutto bene, lo stanno riportando in camera, aspettate che lo sistemano poi potete venire.”
Sollievo, sorrisi, lacrime liberatorie.
Ma il tempo passa e nessuno ci chiama. Fermiamo un’infermiera, chiediamo, ci dà una risposta evasiva. Che sta succedendo? Io passeggio nervosa, so che Alfonso vorrebbe accendersi una sigaretta, ma non si può.
Evitiamo di guardarci, anche lui è in piedi, il tempo sembra inchiodato. Finalmente ecco un medico: “C’è stata un’emorragia. Abbiamo dovuto riportarlo in sala operatoria”. Si eclissa prima di rispondere alle nostre domande, ma che può dirci? Sicuramente non si aspettavano neppure loro questo imprevisto. Un ragazzo giovane, un’operazione difficile ma che sembrava riuscita, poi forse un punto o più punti avevano ceduto e la vita se ne stava andando con il sangue.
Fuori comincia a fare buio, vediamo persone che lasciano l’ospedale, l’ora di visita è terminata. Noi siamo lì, non sentiamo la stanchezza, solo una telefonata a casa per sapere come va, come stanno gli altri figli, una telefonata che rassicura chi aspetta, non possiamo certo dire la nostra ansia.
È quasi sera quando finalmente arriva il chirurgo.
“C’è stata una complicazione, ma ora è a posto. Abbiamo dovuto trasfondere sangue, per fortuna ne avevamo del suo gruppo sanguigno. Ora è in camera, c’è un infermiere con lui.”
Ed eccoci con il nostro ragazzo, con flebo, aghi e catetere non ci sembra più lui. È sveglio. Riesce persino a sorridere. Ci tende le mani e, in piedi accanto al letto, io da una parte e Alfonso dall’altra, le afferriamo come per trattenerlo qui, con noi, quel figlio. L’infermiere è giovane, ci rassicura senza bisogno di tante parole, e inizia una delle notti più lunghe della nostra vita.

Sono trascorsi molti anni. Nostro figlio ha avuto una vita normale, sia pure dipendente dai farmaci, ha una bella famiglia. Tutto questo lo dobbiamo alla generosità dei donatori di sangue. Anche io, finché l’età me lo ha permesso, ho donato il mio sangue.

Luciani Giuseppe

Er concorso de MK

Mi sono sempre chiesto se un giorno avessi avuto il coraggio di descrivere la mia esperienza riguardo all’assunzione di una sacca di sangue nel bel mezzo di una crisi cardiaca dovuta al mio più che critico stato generale conseguente a un bel tumore che, lo ammetto, mi ha cambiato la vita.
Avevo 32 anni, pochini per un frettoloso e soprattutto, inatteso trapasso.
Nel reparto di terapia intensiva la dottoressa di turno notturno si avvicinò e  con un bel sorriso mi preavvisò circa la necessità di una immediata trasfusione ed io con altrettanta cordialità le dissi “ Non ci provi!” ero, sì, inorridito dall’ospitare qualcosa di diverso dal mio, ero furibondo e con quelle poche forze che avevo le dissi ancora una volta “ NON CI PROVI!” e quando la dottoressa mi spiegò i motivi per cui doveva procedere in quel senso, le dissi ancora NO, finché……..beh…ora sono qui a scrivere e a raccontarlo… quindi diciamo pure che il medico aveva ragione ed io in quel momento ero fuori di me!
Morale della favola…
1.  Fidateve der medico;
2.  fidateve der sangue, seppure non vostro, seppure invadente, seppure forzato!
In quanto ai donatori, beh, a loro il mio grazie, visto che tramite loro oltre al sangue ho ricevuto sacche di plasma, sacche su sacche, finché arrivò il giorno in cui riuscii ad alzarmi e a respirare di nuovo, pronto a riaprire le ali per spiccare il volo!  
Ubriacateve de vita
Gotedeve er sole
Respirate de piacere
E se potete
Regalatela na goccia
nun se paga, è gratis

VITA OSTACOLO  MEDICO/ VOLONTARIO DONATORE  SE RIVOLA!!!

Molinari Katia

Un’altra favola

“Un’altra favola, mamma” chiede Federica sdraiata alla mia sinistra.
“Buonanotte mamma, io dormo” dice Giacomo alla mia destra.
“Fate i bravi, ci vediamo tra qualche giorno” e li bacio.
Qualche coccola e il sonno li raggiunge in pochi istanti…Una sera come tante, tante già vissute, se non fosse per quel nodo in gola… Ho raccontato loro di una partenza l’indomani verso una località un po’ lontana dove dovrò fare una visita medica. Sono ignari della vera destinazione, hanno 4 e 6 anni non possono sapere che il cuore della mamma verrà “riparato”, meglio lasciarli alle loro giornate di sale, sole e sabbia.
L’intervento è molto semplice, di routine, durerà poche ore. Poi come spesso accade le cose semplici si complicano e la gestione in totale sicurezza viene meno, diventa difficile, affannata,  fuori controllo, impossibile.
In sala, in quel momento le lauree, le specializzazioni, le esperienze, i talenti non sono sufficienti; Tutti impotenti di fronte al liquido prezioso che inarrestabile continua  a perdersi. L’aiuto, la vita, può arrivare solo da fuori, da uno sconosciuto, uomodonnabianconerocoltoanalfabetagiovaneadultosinglegenitorebruttobellosimapticoantipaticobuonocattivo: UN DONATORE!
E il dono arriva, sigillato in una confezione speciale, con una piccola e minuziosa etichetta, senza un mittente, ma con un destinatario preciso. Un dono per me che, è proprio il caso di dire,  arriva dritto al cuore, e poi ne arriva un altro, un altro e un altro ancora a mettere pace, a ristabilire gli equilibri, a placare il disordine e restituire quella vita che stava per andare via.
Tu, sconosciuto, che mi hai donato il regalo più bello, sappi che lo custodisco dentro di me e non potrò mai ringraziarti abbastanza per avermi dato la possibilità di leggere ancora tante altre favole a Federica e Giacomo e di raccontarne di nuove a Luca.

Moretti Giacomo

Donare: La solidarietà si moltiplica

Il mio nome è Giacomo, vivo ad Anghiari, un bellissimo paese nella provincia di Arezzo, città dove sono nato circa 39 anni fa.
Ogni volta che parlo della mia esperienza da donatore mi giungono alla mente tantissimi ricordi ma soprattutto rivivo emozioni particolari. Ricordi che cercherò brevemente di riassumere anche se si tratta di una storia lunga più di 21 anni, ovvero la parte maggioritaria della mia vita.
Ho sempre sentito parlare in famiglia della donazione di sangue in quanto mio nonno paterno era un donatore. Uno di quei donatori che iniziarono a donare agli albori della donazione.
Con mio nonno ho avuto modo di parlare tanto di come si svolgevano le donazioni “ai suoi tempi”. Era bello parlare con lui anche di questo. Conservo ancora con cura e premura una lettera del 1959 indirizzata a mio nonno dalla Provincia di Arezzo, quale riconoscenza per il suo impegno da donatore.
In famiglia sono un donatore di terza generazione.
C’è però una data che ha radicalmente cambiato il mio modo di ragionare e prima della quale non avevo mai dato peso all’importanza del dono: il 23 dicembre 1996. Avevo appena compiuto 17 anni, mio fratello più grande ebbe un terribile incidente automobilistico. Lui aveva all’epoca 19 anni, dopo tanti mesi di ospedale uscirà sano e salvo da questa brutta avventura (ad oggi è donatore anche lui).
Durante i lunghissimi mesi di ricovero ed i tantissimi interventi subiti, c’era una costante: mio fratello aveva ricevuto tantissimo sangue. Sangue donato da persone che io non conoscevo e non conosco ma rispetto alle quali sarò riconoscente a vita.
Così il giorno del mio diciottesimo compleanno, ovvero l’11 novembre 1997 mi recai al Centro Trasfusionale presso l’Ospedale di Sansepolcro dove iniziai il percorso che porta alla donazione.
La prima firma che ho messo da maggiorenne è stata quella nei moduli del Trasfusionale, prima ancora di iscrivermi a scuola guida.
La mia prima firma, quella “che conta”, è stata fatta in vista del poter donare il mio sangue agli altri, a persone sconosciute che non conoscerò mai.
Ricordo ancora quel giorno, un giorno non casuale, il 23 dicembre 1997 infatti effettuai la mia prima donazione di sangue intero. Se ci ripenso oggi ancora mi viene una certa piacevole emozione.
Ricordo ancora la gioia di quel giorno, un giorno che non dimenticherò mai.
Mi viene alla mente ancora l’attenzione nei miei confronti da parte del personale medico ed il fatto che la dottoressa, allora responsabile del centro, si mise a sedere accanto a me e non mi tolse lo sguardo di dosso nemmeno per un secondo nel corso di tutta la donazione, forse perché all’epoca ero molto più, come dire, leggero di adesso.
Infatti seduto su quella poltrona c’era un ragazzino magro, e anche un po’ timoroso ma determinato nel portare avanti una decisione ed una scelta della quale non si è mai pentito e della quale è impossibile pentirsi.
Poi il tempo è passato, mi sono seduto su quelle poltrone quando ero ancora un “immaturo” in quanto ancora studente del quinto anno delle superiori.
Poi da militare (la leva era obbligatoria), poi da studente universitario e così via, fino alla persona che sono oggi.
Le conversazioni fatte mentre donavo – a me piace parlare molto! – seguivano questo corso di vita, la mia vita. E quindi, ho cominciato con il rivelare le mie preoccupazioni per l’esame di maturità che avrei fatto di lì a pochi mesi. Poi, il saluto al personale per la mia imminente partenza per “servire la patria”, e così via: l’università da scegliere, la discussione della tesi, l’abilitazione professionale fino al più recente e bell’annuncio “ragazzi mi sposo”, con in risposta abbracci e risatine.
Sì, con il passare del tempo il personale del Trasfusionale diventa una seconda famiglia.
Non solo perché con il test ed il colloquio obbligatorio, svolto sempre nella massima riservatezza e con una professionalità ineccepibile, sei davanti ad una persona che sa tutto di te, ma soprattutto per quel bel rapporto che volendo si può instaurare con chi in quel momento si sta prendendo cura di te e sta estraendo linfa vitale che sarà fondamentale per chi ne ha bisogno.
La donazione del sangue ha segnato la mia vita dai 18 anni ad oggi, date su date, che sia stato sangue intero, plasma o piastrine poco conta. Come non conta il numero delle donazioni che si è riusciti a fare.
Per quanto mi riguarda penso che la donazione più importante sia sempre la prossima, quelle già fatte hanno già svolto il loro compito, di sangue c’è davvero sempre bisogno.
Date che si succedono le une alle altre segnate nei miei libretti dell’AVIS. Libretti dei quali vado fiero, libretti con tante date scritte sopra e che a volte mi piace tenere tra le mani e riguardare.
Quello che davvero è bello, è sapere che dall’altra parte ci sono persone che hanno bisogno, un bisogno che può essere soddisfatto solo attraverso il semplice gesto di donare il proprio sangue.
Con questo non mi riferisco “solo” al paziente che riceverà direttamente il nostro dono, no, mi riferisco anche a tutte quelle persone che nutrono affetto nei confronti di chi in un dato momento della vita si trova in una situazione di difficoltà.
Se sta male un nonno, il sangue donato per lui farà bene anche ai nipoti, se sta male un figlio o una figlia farà del bene anche ai genitori, se sta male un genitore farà del bene anche ai figli, se sta male un fratello farà del bene anche ai fratelli, proprio come nel mio caso.
A volte me le immagino le vite dei riceventi.
Dietro ad ogni sacca di sangue c’è una storia, la mia la conosco, ma sono anche consapevole che dietro a quel bisogno c’è chi sta portando avanti una sua battaglia.
Ovviamente mi piace pensare che quelle battaglie, alle quali si è contribuito, siano state vinte.
Non so nulla dei riceventi, ma so che ad un grande loro bisogno, si può rispondere con un gesto innocuo, indolore, che ci porta via davvero poco tempo, rispetto al tanto tempo che buttiamo ogni giorno in attività del tutto inutili.
Donare è importante e fondamentale perché crea un moltiplicatore di solidarietà del quale nemmeno possiamo immaginarci.
Io sono e resterò sempre grato a quei donatori, donatori che non posso né ringraziare né abbracciare, donatori che hanno salvato una vita, e con questa hanno salvato un po’ anche la mia.
Però, probabilmente, il dono più grande che facciamo nel donare è proprio a noi stessi, un dono che chi non ha mai provato a farselo non più neanche lontanamente capire.
 
Anghiari 19.01.2019

Pacetti Priscilla

Sangue del suo Sangue

Cara Isabel, questa storia comincia poco meno di un anno fa, in un giorno di carnevale, mentre tu che non hai ancora 5 anni, ti travesti da unicorno per la festa della scuola.
Questa storia, presta attenzione, Ë strana, diversa dalle favole che ti leggo di solito. Non comincia con “C’era una volta” e non ha una sola protagonista, non c’è solo una bella principessa, ma tante.
E sono tutte donne, tutte femmine.
Come quelle che danno la vita, che sono mamme, sorelle, zie, nonne e cugine.
Unite da un legame così forte che si tramanda tra le generazioni. Un legame che crea famiglie.
Queste donne sono legate tra loro da qualcosa di molto prezioso, e molto spesso sottovalutato, qualcosa che le unisce per sempre, il SANGUE.
A me il sangue non Ë mai piaciuto (sono una di quelle che durante le scene violente dei film si copre gli occhi con le mani).
Sono una che certe cose non le vuole vedere.
Come se non esistessero. Invece esistono.
“Le sacche di sangue sono arrivate!” ci hanno detto, come fossero delle invitate a una festa. “Ma devono scaldarsi” Come ospiti venuti dal freddo.
All’epoca non capivo. Poi ho imparato, e in fretta.
Ora so che il sangue da trasfondere si fa sempre attendere.
Che se hai un gruppo raro e pertanto molto ambito, l’attesa è ancor più lunga.
Ora so cosa sia l’emergenza sangue, la chiamano così, e so che non gli avevo dato la giusta importanza.
Non avevo mai prestato abbastanza attenzione a quei cartelloni delle
campagne di sensibilizzazione, che sfilavano sotto i miei occhi, a bordo di autobus malandati né alle locandine appese nei bar.
Non ero in malafede, semplicemente non me ne occupavo. Credevo non mi riguardasse. Dedicavo tempo ad altro. Pensavo che fare un’offerta a qualche associazione bastasse.
Ora so che certe cose non si comprano, si donano e basta.
Oggi io sono una donatrice. E quando ricevo il risultato delle mie analisi sono fiera di me, come mai prima. So che sto facendo solo il mio dovere e che non merito alcuna medaglia per questo, ma sono comunque emozionata, come quando aspettavo la chiamata del mio compagno di banco al liceo (telefonata che tardava certe volte, ma alla fine arrivava e impazzivo di gioia). Provo quella sensazione di cuore pieno, come quando ho sentito il tuo, la prima volta che ho fatto l’ecografia e tu eri lì nella mia pancia, legata a me da quel cordone che per sempre ci unirà, la nostra corda invisibile, come la chiami tu. Tu piccolo batuffolo, sangue del mio sangue.
Sai Isabel non avrei mai pensato di diventare una donatrice, né una supporter della “causa”, ma la vita ha in serbo per noi destini imprevedibili.
Non puoi ricordarlo, sebbene tu abbia una memoria pazzesca per una bambina della tua età, perciò te lo racconto io: era febbraio dello scorso anno e le due sacche tanto attese restituivano a nonna un pò dell’energia perduta da giorni.
Eravamo ancora all’oscuro di tutto. Non avevamo ancora una diagnosi.
Eravamo io e lei in una stanza X, di una clinica X, in un giorno d’inverno.
Ricordo benissimo quella notte. E ancor più quella seguente.
La prima non sapevamo ancora nulla, la seconda: tutto. O meglio credevamo di saper tutto ma la nostra immaginazione non sarebbe mai potuta arrivare a tanto.
La prima notte, nonna l’ha trascorsa in quella clinica da sola. Lei e le due sacche. Io l’ho passata a casa con te, con la mia angoscia, ma ancor più con quell’incoscienza che appartiene solo al PRIMA e che mai più tornerà.
C’è un PRIMA e un DOPO in ogni storia, piccola Isabel. In ogni esistenza.
Il PRIMA non sai di viverlo. Il DOPO cambia tutto, inesorabilmente.
Il DOPO Ë sempre un’altra storia.
» entrato quel dottore. Quello che fino a qualche ora prima era freddo e non ci guardava mai negli occhi. Invece ci ha fissate e ha accennato un sorriso.
Mentre ci diceva che nonna aveva la LEUCEMIA, sorrideva, come a volerci rincuorare, a provare l’impossibile tentativo di rassicurarci.
A me sembrava bisbigliasse, ma forse non era la sua voce a essere bassa ma il rimbombo del mio cuore che ricordo assordante.
Le pareti della stanza in quel momento scoloravano. Io mi scioglievo.
Il sangue che avevo nelle vene, si era trasformato in catrame, così denso che faceva fatica a scorrere. Mancava l’aria.
Sono stati attimi o forse ore, non saprei dirlo. Poi abbiamo atteso una dottoressa gentile che a tarda sera ha fatto molta strada solo per venire da noi. Ha parlato a lungo e stavolta ho trovato la forza di ascoltare. L’ho fatto con attenzione. Per filo e per segno non ho perso una parola.
Ma nonostante ciò non ho capito neppure stavolta.
Non ho capito perché questo sangue che dovrebbe essere la nostre fonte di vita a volte impazzisca.
Non ho capito perché proprio a noi.
Non ho capito perché debba accadere a noi, come ad altri.
Accade ai bambini. Alle mamme stanche e ai giovani padri, alle nonne con gli occhiali, alle ragazze tatuate coi capelli rasati. Agli zii facoltosi, ai registi famosi, agli attori senza arte, ai criminali a piede libero, agli innocenti in galera. Accade ai medici mentre curano altri malati!
Che paradosso questa malattia che ti rovina la vita. » democratica, colpisce un pò tutti, senza esclusioni di sorta, senza sconti né pietà. Arriva all’improvviso e ti sceglie chissà in base a quale criterio.
Ero lì seduta ai piedi del letto di nonna, ascoltavo la dottoressa dai capelli argentati, che a te sarebbe sembrata la fata turchina di Pinocchio, e pur mettendoci tutta l’attenzione e il coraggio possibile, non capivo.
Continuavo a non comprendere.

Anche ora mentre ti scrivo, se ci penso mi spiego di più gli incidenti stradali: qualcuno corre, qualcuno è distratto.

Le morti violente: qualcuno è impazzito.

Trovo persino una giustificazione ai suicidi: qualcuno non si vuole più bene.

Chi muore per un’overdose, chi beve fino a morirne: qualcuno sta così male da volersene dimenticare a tutti i costi. Ma queste malattie. Che provano a toglierti la vita.

Queste no. Non le capisco e non le accetto. Ancora oggi a distanza di un anno, in cui ci penso tutti i giorni, ancora non me le spiego. So che devo accettarne il mistero. Se c’è un Dio lassù (e io credo che ci sia, non si spiegherebbero troppe meraviglie, tra cui te, che per me sei la numero uno) deve esserne triste anche lui. E infatti quella sera piovve tanto e piovve tutta la notte. Senza sosta né indugio.
Lo ricordo come fosse adesso: ci siamo io e nonna che uniamo i letti della clinica, per stare vicine, perché penso che devo darle coraggio, e lei pensa che deve consolarmi.
Io non dormo perché ho paura degli incubi, ma nessun incubo potrebbe essere peggiore della realtà. Lei non dorme per non svegliare me, ha paura di russare, dice. Io so la verità. Quella notte dormire Ë impossibile. Lo è quasi tutte le notti successive. Tutte le notti del DOPO.
Intanto tu, Isabel, a casa, sei vestita da unicorno e ti metti in posa. Nella mia mente ho l’immagine fissa di te in quella foto: sorridi con in mano una bacchetta magica a forma di stella.
Io da quel giorno prego che quella bacchetta avveri l’unico desiderio che ho: “Dio se mi senti, falla guarire, falli guarire tutti, perché io li voglio salvare tutti. Ma proprio tutti, pure i tirchi e i criminali. Pure quelle che potrebbero rubarmi il fidanzato da quanto sono belle. Salvali tutti: Anna che non riceve mai visite perché i figli rifiutano la sua malattia, Laura che ha 2 bimbi a casa, Elisa che mi regala i tortellini migliori della mia vita dalla sua Bologna, Guido che adora la cotoletta, Giampiero sempre elegante, il figlio del vecchietto, di cui non so neanche il nome, che sta male da 10 anni, la ragazza in fondo al corridoio che piange sempre, Sasi che ha Napoli nel cuore, Lia che si deve sposare, Chicca che mi consola quando sono io che dovrei consolare lei. Dio salvali tutti, quelli che conosco e pure quelli che non conosco. Fai un miracolo, facciamoglielo vedere a questi uomini del 2000 che non credono a niente che non hai solo salvato Noè e tutta l’arca, che non sai moltiplicare solo i pani e i pesci, che ti interessano tutti questi figli prodighi che hai quaggiù. E se non puoi Tu, Dio, allora che ci pensi Isabel con la sua bacchetta magica, con i suoi occhi di mirtillo e il suo profumo di borotalco, mentre vestita da unicorno affronta la vita”.
Quante volte in questi mesi Isabel mi hai rivolto le tue domande, quante volte non ho avuto risposte per te.
La tua disarmante innocenza che certe volte ti fa chiedere se nonna indossi la parrucca anche mentre fa colazione, e la tua curiosità di bambina che lasciano il posto a scene spiazzanti che mai più toglierà dal cuore.

Come quando ti ho portato aldilà del vetro, dopo che nonna ha fatto il
trapianto e tu hai poggiato la tua manina sulla finestra, a voler sfiorare la sua, e hai lasciato quella piccola impronta.

Come quando hai detto che poiché io potevo vederla tutti i giorni, mentre a te non era concesso andare a trovarla, era logico che a te nonna mancasse di più e quando hai chiesto: “ma se i bambini non possono andare a trovare i grandi all’ospedale, quando i bambini si ammalano, i grandi possono andare a trovarli?” ti ho rassicurata, ma mi sono voltata dall’altra parte perché mi hai commossa. Sciolta come il cioccolato bianco che piace tanto a te.
DOPO quella notte, non sai quante ce ne sono state, terribili. Notti in cui avrei voluto piangere e avevo finito le lacrime. Un giorno forse te lo racconterò. Un giorno quando tutto questo sarà lontano potrò dirti com’ero prima e come sono ora. E tu saprai che nonostante tutta la tristezza, ora sono migliore.

Anche se ci sono stati giorni in cui la vita è stata solo un susseguirsi di fialette, aghi, disinfettanti, farmaci, SANGUE. Analisi, visite, lenzuola macchiate, compagne di stanza, SANGUE. Dimissioni, paura, nuovi ricoveri, nuove stanze, vecchie compagnie, SANGUE. Febbre, batteri, angoscia, preghiere, SANGUE e tante volte il sangue non c’era. Troppe volte c’era da attenderlo fino a sera.
Lo abbiamo aspettato come quelle telefonate che non arrivano mai e stai vicino al ricevitore a sospirare col cuore in gola.
E ogni volta mi chiedevo come fosse possibile star lì a spasimare per una cosa che abbiamo tutti. Una cosa che abbiamo tutti e non costa nulla. Ma ha un valore immenso.
Ecco un altro paradosso di questa storia.
Il sangue è prezioso più dei diamanti ma non lo si può comprare.
» come l’amore, non si compra, ma si può offrire.
Se doni il tuo sangue, tu vivi senza problemi, ma puoi letteralmente salvare la vita di qualcun altro.
L’uomo ha inventato molte cose, ma ancora non ha trovato il modo di
replicarlo, né tanto meno ha scoperto la formula della generosità.
Io non sono una scienziata, né una ricercatrice, non posso scoprire se c’è un modo per clonare il sangue, ma per quanto attiene alla generosità, mia piccola Isabel, posso essere il tuo esempio e un giorno forse tu lo sarai per qualcun altro. Posso insegnarti ad essere generosa, come ti ripeto sempre, gentile e generosa, più che potrai. Questo Ë l’importante, non dimenticarlo mai.

Tu sei una delle tante donne di questa storia. Tutte hanno contribuito a
renderla migliore.

Ho tanti altri esempi di altruismo che posso raccontarti.

Alessandra, l’ottimista della famiglia, che ha dormito con me sul pavimento dell’ospedale la notte del trapianto per non lasciarmi sola.
Nonna Chiara, mani grandi e generose, che ha pregato ogni giorno, senza sosta.
Suor Marianna, delicata sempre presente, che ha dispensato abbracci e fiducia.

Francesca, occhi brillanti e gioia nel cuore, che ha riempito i nostri giorni di speranza.
Giulia, che senza parlare ha detto molto di più; Buffy sempre pronta a giocare con te per lasciare tempo a me. Non scorderò mai di quando Giuggù e zia Bu sono venute dietro al vetro senza parlarmi solo per farmi sentire che erano lì con me, quando Nonna nemmeno le riconosceva e a stento mi parlava.

Eva, occhi piccoli dietro gli occhiali grandi che tanto piacciono a te e il cuore più limpido che conosca, che mi aspettava fino a tarda sera sulle panchine.
Stella e Michy che mi telefonavano senza tregua e senza che io rispondessi mai, continuavano senza tregua a telefonarmi.
Zia Antonella che mai ha smesso di pensarci un attimo.
Tutte queste amiche, cugine o mancate sorelle che non ho, hanno trovato tempo per noi e per questo dobbiamo essere riconoscenti per sempre, perché il tempo è un’altra cosa che vale molto e non si può comprare: questo lo rende ancora più prezioso.
Cara Isabel se ti scrivo questo è perché oggi io posso fare in modo che tu
cresca imparando quanto può fare la differenza sapere o non sapere certe cose, quanto può essere decisivo per la vita di qualcun altro che tu trovi il tempo di essere generosa. Che tu dedichi mezz’ora ogni 6 mesi per andare a dare un pò di te a qualcun altro. Che tu rinunci magari a un’uscita con la tua migliore amica, a un appuntamento con un fidanzatino (che sono sicura sceglierai portandomi il più scapestrato della tua classe, ma che sarà un’irresistibile canaglia), o a ripassare per un esame all’università, per andare a fare qualcosa di veramente importante: donarti.

Ti basterà pensare alla tua adorata nonna, quella che ha ispirato tutta questa favola al contrario, quella che ha sopportato tutti questi mesi di torture, e lo ha fatto principalmente per te.
Quella che in certi momenti era fragile come un passerotto caduto dal nido ma ha tirato fuori una grinta che l’ha riportata finalmente a casa, dopo mesi di agonia trascorsi in quelle stanze foderate di linoleum.
Nonna occhi buoni e dolcezza sconfinata.
Nonna che ha la nuca calva più perfetta che abbia mai visto.
Nonna che consolava le sue compagne di stanza e giocava a carte con loro per distrarle.
Nonna che offriva gelati alle infermiere.
Nonna che ha pianto.
Nonna che indossava i suoi sorrisi migliori nascondendo le lacrime quando me ne andavo via la sera e restava lì da sola.
Nonna che oggi Ë a casa con noi, grazie alla generosità di un’altra eroina di cui non sappiamo neppure il nome: una ragazza tedesca di soli 21 anni, che le ha donato il suo midollo, compiendo quello che spero un giorno sarai in grado di fare anche tu. Vorrà dire che allora niente Ë andato sprecato o perduto, che la lezione l’avremo imparata e che qualcosa ti avrò insegnato.
Se non ci fosse stata nonna, non ci sarei io e non ci saresti tu. Dobbiamo
ringraziare Dio, il destino, il fato o la polvere magica della tua bacchetta, a seconda di quello in cui tu crederai.
Ma se non ci fossero state tutte le persone che hanno donato tutte le sacche di sangue che hanno tenuto compagnia a nonna in questi mesi, se non ci fosse stata la nostra fatina tedesca, oggi io non sarei qui a raccontarti questa favola e tu non potresti ascoltarla.
Cara Isabel per questo cerca di diventare una persona gentile e generosa che trova il tempo di salvare la vita a qualcuno.
Pensa che puoi farlo semplicemente donando il tuo sangue, senza bisogno di costumi da unicorno o bacchette magiche, e io ti prometto che vivrai felice e contenta. Come nelle favole. Che certe volte, per fortuna sono storie vere.
La tua mamma, con tutto l’amore che c’è.

Personemi Giulia

Il ticchettio ipnotico della Speranza

Ero lì accanto a lui, gli tenevo la mano, non per farlo sentire al sicuro, sapevo che Lui, come al solito, era più forte di me. Ma era per aggrapparmi, non cadere. Anche in quel momento Lui rappresentava il mio faro, nonostante le poche forze, l’ago al braccio e la tempesta che lo stava attraversando.
Non so Voi, ma il mio Papà, per me, è sempre stato il mio Supereroe.
Quell’uomo inscalfibile, l’unico a cui non ho mai dovuto fare neanche un favore, perché era lui a fare tutto per tutti.
Ma in quel momento il mio mondo si era catapultato, perché qualcosa di più grande di tutti noi gli stava portando via quello status.
Per la prima volta l’ho visto fragile, così fragile..
I giorni prima avevo notato del pallore, ma Sapete, poteva essere poco sole, un po’ di stress, stanchezza: ”Meglio che riposi papo..è giusto un po’ di influenza, qualche giorno e ti riprendi”, ma i giorni passavano e quella fiacchezza non andava via..
“Allora dai, andiamo a fare un controllo, così ci togliamo il dubbio..”
Quei controlli che nessuno fa mai – che tanto, cosa vuoi che sarà mai
Invece l’analisi del sangue apriva improvvisamente uno scenario nuovo, rendeva tutto più lucido; non era un momento, era il suo corpo che mancava di qualcosa, di quel motore che porta l’ossigeno in tutto il corpo: Poca emoglobina, Poca energia.
E fa paura, Sapete, fa paura quando qualcosa dentro a qualcuno a cui vuoi bene non funziona più.
Faresti di tutto per aiutarlo, per prenderti addosso quel macigno e farlo tuo, togliergli un po’ di quel peso, condividerlo.
Ho avuto paura che non ci fosse soluzione, che fosse tardi, di non poterlo vedere più fuori da quel letto di ospedale, il quale era come se gli avesse imposto un nuovo status di “paziente”, che si trasforma subito in “malato”, che porta via un po’ di speranza.
Invece la soluzione per tirarlo fuori di lì, per rivederlo colorito e forte, c’era. E’ qualcosa che scorre in tutti noi, un “Farmaco” che ci portiamo dietro ignari che possa fare tanto: il nostro Sangue.
Così, fu fatta la richiesta, ci fu l’attesa, e Fidatevi, anche quelle poche ore, aspettando di sapere se ci fosse una sacca compatibile disponibile: sono passate lente ed inesorabili.
Ma sono passate alla fine, questo è l’importante, e quella sacca color cremisi, morbida, che mi ricordava quei giochini antistress che usavo da piccola per soffocare la tensione, finalmente arrivò.
Guardavo le gocce scendere, piano piano, rosse, vive, le guardavo scendere lungo quel tubo per giungere al suo braccio, sperando che gli ridonassero quel colore che aveva perso, quell’energia che era sempre stata sua, quella forza che, così giovane, merita di avere; anche se una malattia improvvisa gliela aveva portato via, in maniera subdola.
Perché Vedete, nessuno pensa che capiterà mai a se stesso, tutto ciò che è lontano dal nostro mondo non ci tocca. E sinceramente spero non toccherà mai a nessuno di Voi.
Ma non sempre è così, e questo incidente mi ha tirato via da quel mondo attufato, spensierato e mi ha catapultata nella realtà: cruda, vera e difficile.
Ma non senza speranza.
Quelle dolci gocce infatti, che quasi creavano un ticchettio rasserenante ed ipnotico, piano piano ridonavano tonalità al suo incarnato. Ed ogni tonalità di colore ripresa sulla sua pelle, coincideva con una tonalità di speranza che iniziava nuovamente a splendere dentro di me.
Fino a quel momento non avevo mai pensato a quanto fosse importante Donare.
Ma ho compreso il valore di quella “semplice” Sacca in quell’attimo, e mi sono guardata attorno per capire da dove fosse venuta, quale fosse la fonte: la verità è che poteva essere qualsiasi persona attorno a me.
Perché Donare, in fondo, è così semplice.
L’unico gesto che, nonostante ci tolga qualcosa, ci rende più Ricchi.
 Quindi, Ti ringrazio, chiunque Tu sia, per quei 15 minuti di tempo che hai speso nel venire a Donare il tuo sangue. Quei 15 minuti che hai tolto al Tuo divertimento: il mare, il sole, gli amici..
Non sottovaluto il tuo gesto, voglio che Tu lo sappia, perché quei 15 minuti che hai scelto di togliere a te stesso, coincidono a molto più di 15 minuti di forza e speranza donati ad un perfetto sconosciuto, che Ti sarà per sempre grato.
Eccomi qui, perciò, a dirti Grazie, di Cuore, Per sempre.
Hai aiutato i medici a rimettere in piedi il mio Papà: per me, adesso, un Supereroe lo sei anche Tu.

Petrolo Damiano

Riflessioni di un giovane donatore romano

Giustificativo, colazione e analisi
Terremoto, in fila tra i donatori di sangue. Genitori e figli insieme: “Poteva capitare anche a noi”
Per molti è la prima volta. In tanti hanno girato più ospedali. E grazie alla straordinaria prova di generosità l’allarme dell’Avis è cessato.
Titolo e sottotitolo di un noto quotidiano, qualche giorno dopo il terribile terremoto che ha scosso il Centro Italia nell’agosto del 2016.
Tra le varie, ovviamente, c’era l’emergenza sangue. Fortunatamente, la risposta a questa emergenza non si fa attendere. Gente in fila ore e ore per poter donare il proprio sangue.
Molto bene, E’ sempre bello vedere la volontà di dare una mano da parte delle persone.
Magari, però, sarebbe il caso di farlo in modo più ponderato.
Questo racconto, o meglio queste riflessioni, nascono a seguito di una chiacchierata con un mio amico, che al tempo lavorava come addetto alla raccolta dati dei donatori di sangue.
“A Mattè, ma davvero ce sta un’emergenza sangue? No perché, se posso esse onesto, io non penso proprio di venire a donare. A parte che ho donato due mesi fa, ma poi che me rappresenta che devi aspettà un terremoto per donare. Per quale motivo poi? Pe pubblicà una foto sui social in cui fai vedere che anche tu stai dando il tuo contributo alla causa? Boh, sinceramente me pare ipocrita sta cosa, tanto pe fà i belli sui social. Magari sto io in malafede eh, ma ce vedo anche un pò d’egoismo. Ma che se pensa sta gente, che il sangue non serve sempre? Ma soprattutto, tutto sto sangue che stanno a donà, servirà davvero?”
“Onesto? Che noi sappiamo, il sangue serve. Il fatto è che ora ce né fin troppo. Prendila con le pinze, non Ë che ne sappia troppo, ma il rischio Ë che vada addirittura sprecato. Vabbè che serve sempre eh, per carità! Però insomma, distribuirsi meglio durante l’anno sarebbe meglio. Ma pure per non farci fare gli straordinari in questi casi quando buttiamo giornate a rincorrere e pregare la gente per fare una donazione”
“Ma perché, durante l’anno quanta gente dona, in media, ogni giorno?”
“Di preciso non te saprei dì, ma comunque poca. Fidate”
“Eh, infatti! Vabbè, speriamo che ora non vada sprecato su. Sarebbe un peccato”
“Infatti!”
Da donatore di sangue e volontario per altre cause, mi sono sempre chiesto cosa spinga le persone, me compreso, a compiere dei gesti apparentemente semplici, come quello di donare un pò di sangue.
Probabilmente un donatore romano, mettendola sull’ironia, direbbe senza troppi giri di parole:
“A!, giustificativo a lavoro, colazione pagata e te fanno pure le analisi! Ma che ancora ce stai a pensà?”
Di fatto Ë quello che rispondo anche io ai miei amici quando mi chiedono “ma perché doni?”.
E, sempre da buon romano, aggiungo:
“E mica so scemo!”.
Perché sono o anzi, facendo ricorso allo stereotipo del romano, siamo fatti così. La buttiamo sulla battuta, sdrammatizzando l’importanza di tanti gesti importanti, ridimensionandoli per dargli una connotazione quanto più naturale e spontanea possibile.
Al tempo stesso però, tra noi, nell’intimità, sappiamo che la verità Ë un’altra.
Fatta eccezione per un anno in cui non ho donato a causa di motivi personali, sono donatore abituale da 4 anni. Neanche tanto in realtà, e onestamente non credo di ricordare con precisione le motivazioni che mi abbiano portato a prendere questa scelta.
Ricordo però esattamente alcuni dei momenti che, probabilmente, più di tutti hanno inciso.
Provo ad andare in ordine cronologico.
Sicuramente il fatto che anche mio padre sia donatore da che ne abbia memoria mi ha molto aiutato nel sensibilizzarmi. » da lui che ho preso la battuta che uso sempre con i miei amici quando cerco di convincerli. Da piccolo non Ë che la capissi troppo questa battuta. Voglio dire, un giorno di ferie puoi prenderlo quando vuoi, la macchinetta del caffè a casa ci sta e le analisi posso farle quando voglio, basta chiedere una ricetta. Con il tempo, però, ne ho capito il senso.
Un altro momento che ricordo Ë quando, alle superiori, vennero dei volontari in aula a spiegarci quanto sia importante donare, per sé stessi e per qualcun altro.
“Perché non si sa chi, ma di fatto qualcuno si aiuta. Non vi aspettate di essere ringraziati di persona, ovviamente non saprà mai da chi arriva quel sangue. Però voi sapete di poter potenzialmente salvare una persona. E vi assicuro che Ë una sensazione da provare”
Ecco, l’idea dell’eroe sconosciuto mi ha sempre affascinato.
Ricordo anche la prima volta in cui decisi di donare.
“A Mattè, ma dimme un pò de sto lavoro che stai a fa co le donazioni? De che se tratta? Io quasi quasi ce sto a fà un pensierino!”
“Ma magari vieni, così me fai pure compagnia!”
“Ma guarda, se la metti così vengo davvero, te famme sapé quando sei de turno”
“Calcola dopodomani. Tanto studi, manco a dì che devi prende un giorno. E poi calcola che c’avemo dei cornetti troppo boni, il caffè è della macchinetta quindi è bono pure quello!”
“Ma davvero?”
“Te lo sto a dì! Non sapemo a chi darli i cornetti, va a finì che se li magnamo sempre noi”
“Vabbè, manco a fa così”
“Calcola che a Natale l’anno scorso avemo pure regalato panettoni e pandori, se vieni a breve fai in tempo a don‡ di nuovo a Dicembre!”
“Lo sai che me stai a convince? Ma levame un’ultima curiosità, ma me fate pure le analisi?”
“certo!”
“Ma pure del colesterolo?”
“De tutto, te misuramo pure la pressione!”
“Pure quella degli pneumatici?”
“Pure quella te controllamo!”
“Allora daje! Famo na cosa, tienimene da parte un cornetto con la marmellata pe dopodomani và”
“Ma pure due!”
Non credo molto al caso, e il fatto che il mio amico mi abbia dato le stesse motivazioni di mio padre a donare non potevano che essere un segno. E poi i cornetti erano buoni davvero!
Ricordo esattamente la prima volta in cui ho donato, ed effettivamente mi sono tornate in mente le parole dei donatori ascoltate qualche anno prima nell’aula di un liceo. Effettivamente, il fatto che stia compiendo un bel gesto per qualcuno te lo senti addosso. Non sai a chi andrà il tuo sangue, ma sai che a qualcuno servir‡ di sicuro.
E poi, non mi ha mai entusiasmato l’idea di fare del bene per essere ringraziato. Anzi, se dovessi sentirmi obbligato a dover fare del bene, probabilmente sarebbe la volta buona in cui non lo farei. Non voglio essere ringraziato, non mi interessa. Mi basta pensare che regalando una manciata di tempo e qualche goccia di sangue a una persona qualunque, possa contribuire in qualche modo a salvargli la vita.
E al tempo stesso mi piace pensare che, se dovesse servire a me o a qualcuno a me caro, ci sia qualcuno che faccia lo stesso.
In qualsiasi momento.
Sì, sono d’accordo, potreste pensare “Ammazza che egoista!”
E di fatto lo sono, lo ammetto. Sono egoista.
Ma chi non lo è?
E poi, pure qui, è egoismo donare qualcosa finché posso farlo, con la speranza che un domani, qualcuno altrettanto egoista, possa fare lo stesso per me?
Io penso che ci può stare.
E poi, ripeto:
“Giustificativo, colazione e analisi!”
E anzi aggiungo, o meglio riporto, che
“Esiste una serie di prove cliniche che dimostrano l’effettiva riduzione del rischio a contrarre una malattia cardiovascolare in soggetti che eseguono almeno una donazione di sangue l’anno”.
La fonte è una delle più note associazioni che opera nell’ambito delle donazioni del sangue.
Quindi sapete in conclusione che vi dico?
“Ma sì, so’ egoista. Salvo due vite.
E me pagano pure il caffè”
 

Rossi Giulia

Oltre le parole – Come sono diventata donatrice  

«… ed è così che si dividono le parti del sangue che è stato donato. Tutto chiaro, sì?».
Il mio volto di bambina di sette anni doveva essere sembrato piuttosto corrucciato al nostro medico di famiglia, che era stato così gentile da spiegarmi per filo e per segno come funzionasse la donazione di sangue. D’altronde, chi meglio di lui? Specialista in Ematologia! Sembrava assolutamente perfetto per scrivere il mio tema sulla donazione.
La mia scuola aveva scelto di aderire a una campagna di sensibilizzazione al riguardo e io, che, chissà per quale strana ragione, già sognavo di diventare medico, ne ero semplicemente entusiasta.
«Dicevo, tutto chiaro?» ripeté, con tono paterno.
Io lo guardavo dubbiosa; sinceramente non avevo compreso tutto nei minimi dettagli, non all’epoca almeno. Tuttavia, pensavo nella mia beata ignoranza infantile, non mi sembrava una cosa che mi avrebbe mai toccata personalmente e, di conseguenza, archiviai la conversazione e il tema, nell’angolo della mia mente dedicato a: “informazioni interessanti ma momentaneamente inutili”.
Gli anni passarono; ogni anno la scuola aderiva alla solita campagna di sensibilizzazione e ogni anno riciclavo nel solito tema le stesse informazioni, aggiungendone di nuove a seconda del mio livello di istruzione, senza mai metterci particolare sentimento. Scrivevo di quanto fosse bello e nobile compiere un simile gesto, di quante persone si possano salvare, ecc. ecc. Prendevo sempre bei voti per quei temi e la cosa mi riempiva di orgoglio; ripensare adesso a quei momenti fa sorridere: scrivevo parole su parole, descrivevo emozioni che a stento conoscevo e situazioni delle quali non sapevo assolutamente nulla, ma in quei momenti non potevo esserne consapevole. Usavo parole ricercate e pompose per produrre frasi all’apparenza sentite, ma prive di reale sentimento; non avevo mai visto qualcuno soffrire realmente, non potevo immaginare cosa volesse dire e non ero in grado di riportarlo nei miei temi, per quanto mi sforzassi.
Poi successe qualcosa.
Il figlio dei miei vicini di casa si ammalò.
Che sarà mai un vicino di casa, giusto? Non fa parte della famiglia, non abbiamo sangue che ci leghi, eppure per me, figlia unica e con entrambi i genitori a lavoro per tante ore fuori casa, quel ragazzo era il fratello maggiore che non avevo mai avuto. Siamo cresciuti insieme, abbiamo giocato insieme ogni giorno della nostra vita; eravamo un fantastico trio, insieme a sua sorella minore, più piccola anche di me: ci divertivamo a farle degli scherzi e poi a fare pace al momento della merenda, preparata da mia madre o dalla loro, indifferentemente, tanto eravamo abituati a passare tutto il nostro tempo libero insieme. Abbiamo passato estati intere a rincorrere lucciole e metterle in barattoli forati per far passare l’aria, fingendo che si trattasse di fate venute a cospargere i nostri giardini di magia; a far il bagno in piscina e a spruzzarci con l’acqua; a mangiare gelato e melone fresco seduti insieme alle nostre famiglie riunite, come accadeva spesso; e d’inverno ci rintanavamo in casa, a giocare con le costruzioni davanti al caminetto, sgranocchiando biscotti fatti in casa, ben protetti dal freddo e, ci sembrava, dal gelo che la vita può riservare.
Avevo solo quindici anni quando lui morì di tumore.
Fu allora che, per la prima volta, vidi l’altra faccia della Medicina; vidi quello che succede quando il medico non può curare, quando non c’è il lieto fine.
L’abbraccio di sua madre, durante il funerale, fu il più gelido che abbia mai provato in vita mia.
Riascoltare dopo tanti anni termini come “donazione di sangue” o “donazione di midollo”, ebbe uno strano effetto su di me: non si parlava più di uno stupido tema scolastico, letto cantilenando di fronte a una classe annoiata, che preferirebbe di gran lunga fare qualsiasi altra cosa anziché ascoltare l’ennesimo tema infinito della secchiona di turno; adesso, quelle non erano fredde e impersonali frasi scritte su un anonimo pezzo di carta, no… erano rivolte a un mio carissimo amico, a mio fratello.
Mi ripromisi che sarei diventata un ottimo medico, che forse avrei addirittura scoperto una miracolosa cura per il cancro, che avrei dedicato la mia vita ad aiutare i miei futuri pazienti, e tante altre belle e nobili intenzioni in grado di far traboccare d’entusiasmo e senso di riscatto un giovane cuore ferito. Convintissima della mia scelta, mi concentrai sugli studi e ottenni ottimi risultati; tuttavia, raggiunta la maggiore età, non andai a donare.
Mi ero ripromessa di farlo, come se fosse stato una sorta di dovere non ben definito, eppure non era successo. Era un’idea passeggera, un “il mese prossimo vado, ho deciso” che si ripeteva, esattamente come i buoni propositi a Capodanno, con la differenza che la decisione di andare a donare, al contrario dei Propositi, non riguardava solo me; era esattamente questo il punto che non riuscivo a comprendere fino in fondo: non riguardava solo me, non si trattava di una bella azione da compiere perché così sarei stata di esempio in quanto futuro medico; si trattava di dare a qualcuno la possibilità di continuare a vivere, ma, purtroppo, non ero ancora riuscita a cogliere il significato profondo del gesto.
Ovviamente sapevo quanto donare il sangue fosse un gesto bellissimo, dopotutto non avevo scritto temi su temi al riguardo? Eppure, non riuscivo a sentirlo, ad andare oltre le parole, a coglierne la vera essenza. Se si dona, è perché qualcuno ha bisogno di quel dono. Ma perché ne ha bisogno? E chi è questo misterioso destinatario del mio dono? La mancanza di un motivo ben preciso, oltre al vago “a tante persone serve sangue”, in alcuni casi costituisce la scusa del continuo rimando. Nel mio caso, la motivazione non era ancora sufficiente a far affiorare il pensiero di andare a fare una donazione di sangue dall’oceano delle altre mille idee e preoccupazioni.
E di preoccupazioni ce n’erano.
Ero all’ultimo anno di liceo, piuttosto in ansia per l’esame di maturità; durante le vacanze di Natale avevo già iniziato a scrivere una bozza della mia tesina. Il periodo natalizio mi ha sempre avvolta in misto di nostalgia per l’infanzia e solitudine, nonostante casa nostra fosse regolarmente invasa dai parenti dal ventiquattro dicembre al sei gennaio: sono l’unica della mia età in famiglia, tutti i miei altri zii e cugini sono molto più vecchi o molto più giovani di me e, di conseguenza, non ho mai brillato nell’arte della conversazione familiare. Preferivo starmene seduta accanto al fuoco a leggere uno dei miei libri, che mi avrebbe trasportata, almeno per un po’, in un’altra realtà, libera da cuginetti pestiferi e zii che minacciavano di bruciarmi il libro se non fossi andata immediatamente a giocare a tombola con gli altri.
A mia madre è sempre piaciuto buttarsi nella mischia dei giochi da tavola, mentre a mio padre riusciva di tollerare qualche partita a carte, poi tornava a sedersi sulla sua poltrona preferita per guardare un po’ di televisione o per fare due chiacchiere con chi era stato buttato fuori dal giro di briscola; non mancava mai, poi, di venirmi a scarmigliarmi i capelli di tanto in tanto per assicurarsi che stessi bene e per ricordarmi di non alienarmi troppo dal resto della famiglia.
Quei momenti mi mancano tremendamente…
Neanche un paio di mesi dopo, alla vigilia del suo sessantesimo compleanno, mio padre scoprì di avere un cancro ai polmoni.
La notizia fu devastante.
Lui si dimostrò incredibilmente forte, di corpo e di spirito, reagendo bene ai cicli di chemio e cercando come poteva di continuare a godersi la vita come nulla fosse.
Soltanto dopo diverso tempo mia madre mi confessò che una volta lo aveva sentito piangere in bagno, di nascosto.
Terminai il liceo e mi iscrissi alla facoltà di Medicina e Chirurgia, piena di speranze e voglia di fare. Passai i primi esami mantenendo una media dignitosa, grazie anche allo slancio di motivazione che si ha classicamente all’inizio di una nuova avventura; scoprii, non senza amarezza, che il mio percorso liceale mi aveva lasciato più lacune di quanto immaginassi ma, rincuorata nel vedere sulla mia stessa barca innumerevoli altri studenti, mi rimboccai le maniche, studiai duramente e riuscii comunque ad ottenere i miei risultati.
Mi stavo affacciando al mondo universitario con tutta la positività di cui ero capace, determinata a voler portare a termine i miei studi il prima possibile e con il massimo dei voti.
Nei miei panni di neo-studentessa universitaria tutta d’un pezzo, decisa a mostrarmi forte, tentavo come potevo di ignorare quella tossetta leggera ma stizzosa che accompagnava mio padre ovunque andasse, che fosse a un pranzo fuori con la famiglia o a riprendere me in stazione dopo una lunga giornata passata all’università. Mi accoglieva sempre con un sorriso e un cioccolatino, era il nostro rituale segreto: un po’ di cioccolato extra senza dirlo alla mamma.
Il mio primo anno proseguì, quindi, tra alti e bassi, studiando materie necessarie ma che poco avevano a che fare con la Medicina vera e propria e che non davano modo agli studenti di confrontarsi direttamente con la sofferenza e la malattia.
Vivevo ancora nella mia bolla di sapone, ignara di cosa volesse dire essere realmente dalla parte del malato; l’orribile esperienza della morte del mio amico fraterno era sparita dalla mia memoria, chiusa a doppia mandata in un baule in fondo alla mia mente, complice anche il fatto che durante la sua malattia i miei genitori avevano avuto l’accortezza di non rivelarmi tutti i particolari della sua agonia, che scoprii soltanto in seguito. La salute apparentemente buona di mio padre, inoltre, rendeva dolorosamente facile dimenticare, almeno a tratti, quale fosse la reale causa della sua tosse persistente.
Non so perché non riuscissi ad aprire gli occhi, probabilmente non volevo farlo, ma non ne ero consapevole. L’ultimo dei miei pensieri era quello di andare a donare sangue. Continuava a ronzarmi nella mente, come un vecchio tarlo ostinato, ma non mi sembrava che ci fosse un reale motivo per andare. Avevo gli esami da preparare, avevo i miei amici, la mia famiglia, lo sport…
Quanto è facile non pensare a chi è malato, quando tutti quelli che ci circondano e noi stessi siamo (o sembriamo) in buona salute!
All’inizio del mio secondo anno di università la situazione sembrava finalmente sotto controllo: il tumore era in regressione e tutto sembrava andare per il meglio.
C’era un’aria di ritrovata allegria in casa, come se avessimo vinto tutti insieme una dura battaglia; la tempesta che ci aveva colpito ci stava finalmente lasciando respirare e intravedere il cielo, ancora più luminoso a contrasto con le nuvole scure.
Non ci eravamo sbagliati più di tanto, quella era davvero la fine, ma non quella che speravamo.
A ottobre mio padre iniziò a comportarsi in modo sempre più bizzarro. Dimenticava le cose, faceva fatica a camminare, aveva uno strano senso dell’umorismo…
Per me, mio padre è morto il giorno stesso in cui ricevemmo la diagnosi: il cancro ai polmoni aveva improvvisamente dato metastasi al cervello, metastasi aggressive. Il suo corpo fisico durò altri due mesi; la sua mente molto meno.
Tra non molto sarà il quarto anniversario della sua morte, eppure il dolore che provo in questo momento è vivo e selvaggio proprio come allora. La mia gola brucia nello scrivere queste parole e le dita si muovono a stento sulla tastiera perché il sangue mi si gela nelle vene.
Vorrei tanto concludere questo racconto dicendo “questa storia è frutto della mia fantasia, ogni riferimento a fatti e persone reali è da considerarsi puramente casuale”. Darei qualunque cosa per poterlo fare, ma questa è la mia storia, triste, piena di rabbia e di dolore, come innumerevoli altre.
Tuttavia, tra la mia storia e almeno alcune delle altre, c’è una grande differenza. Mio padre è morto perché nessun farmaco esistente al momento avrebbe potuto salvarlo. È una realtà straziante da accettare: lotto ancora ogni giorno per rimettere insieme i pezzi della mia vita e ho imparato a convivere con il dolore; ma non per tutti deve essere così.
Ci sono troppe famiglie devastate, troppe vite spezzate per un motivo così assurdo; persone costrette a vivere una vita a metà perché non possono sottoporsi all’intervento chirurgico che potrebbe restituire loro la piena autonomia; tutto questo perché non ci sono abbastanza persone che donano, perché non ci sono abbastanza persone che comprendano realmente l’enormità del loro gesto; proprio come me fino a qualche tempo fa, non riescono a capire che oltre le parole “donare il sangue”, che si sentono e si leggono ormai ovunque, ci sono storie di persone vere, famiglie, affetti, che rischiano di essere spazzate via per sempre perché a volte siamo così presi da noi stessi da ignorare che intorno a noi ci sono miliardi di altre vite, di altre storie, che meritano di essere conosciute e salvate.
Questo è quello che mi ripeto adesso ogni volta che vado a donare il sangue: forse, grazie al mio gesto il padre di qualcuno, o il marito, la figlia, la madre… potrà vivere, e stare ancora accanto ai suoi cari, come mio padre, purtroppo, non può più fare.  

Santangelo Roberto

Metti in circolo la solidarietà

Mi chiamo Roberto Santangelo, sto per compiere 30 anni e sono un donatore di sangue della sezione Fidas di Vaglio Basilicata (Potenza) sin da quando sono diventato maggiorenne. Come per molti altri, la mia educazione al dono arriva dalla mia famiglia: i miei genitori erano entrambi donatori fino a quando per problemi di salute hanno dovuto dire stop. Da quanto mi hanno sempre raccontato, erano altri tempi allora, si donava per questo o quel conoscente che aveva bisogno di sangue o doveva affrontare un’operazione. Io ero piccolo quando ascoltavo i loro racconti, ma ho un ricordo, seppur sbiadito, di una signora anziana del mio paese che ogni qual volta incontrava la mia famiglia si fermava a parlare a lungo e ci augurava ogni bene. Il motivo era semplice: mio padre aveva donato il sangue quando il marito aveva dovuto subire un intervento e tutto era andato per il meglio, e lei manifestava così la sua riconoscenza.
 Oggi, per fortuna, la donazione è anonima e quindi non si può assistere più a queste scene, che mi metterebbero in forte soggezione. Anche io però con le mie donazioni voglio mostrare riconoscenza. Ciò che in maniera maggiore, e forse decisiva, mi ha spinto verso il dono è un altro racconto, questa volta di mia madre, di quanto accaduto circa 30 anni fa, ovvero nel periodo in cui mia madre era in dolce attesa. Attesa che dolce nei fatti non si rivelò mai, ma molto difficile e che mise a repentaglio la sua e la mia vita. Nacqui settimino e lottai a lungo, come pure mia madre, per restare in vita: il Signore volle che entrambi vivessimo. Anni dopo mia madre decise di raccontarmi quei mesi duri: ebbe bisogno di innumerevoli trasfusioni di sangue per sopravvivere e grazie a quelle persone che avevano regalato pochi minuti del loro tempo ed un po’ del proprio sangue, tutto andò per il meglio. Appena compiuti i 18 anni sono diventato donatore di sangue, in primis in segno di riconoscenza verso chi aveva contribuito a salvare me e mia madre anni prima.
 Frequentavo il quinto superiore quando mi avvicinai per la prima volta alla donazione: era la vigilia di Pasqua e volli in qualche modo fare un regalo ad uno sconosciuto. La mia prima donazione fu un disastro, mi sentii male e quando tutto fu finito mi si gonfiò il braccio, che mi fece male per parecchi giorni. Le mie motivazioni però superavano le mie paure e così tornai quell’anno ad agosto, e poi a novembre: purtroppo però il mio organismo sembrava non abituarsi al prelievo e così ogni volta, puntualmente, a fine donazione cadevo a terra come una pera cotta. Fu così che l’anno seguente iniziai a donare le piastrine: la procedura era meno invasiva, pensavo, e al mio corpo comunque veniva restituito gran parte di quanto prelevato. Non so se realmente il motivo fu questo, o se semplicemente il mio organismo si fosse abituato a quel processo, fatto sta che non avvertivo più malessere, e così, dopo qualche mese e diverse aferesi, tornai anche alla donazione di sangue intero. Da allora non mi sono più fermato, raggiungendo le 68 donazioni, ma soprattutto, dedicando del tempo alla mia associazione, per promuovere la donazione.
 Ho sempre proposto alle persone che si sono imbattute in me di entrare a far parte della famiglia dei donatori di sangue, a partire dai giovani del mio paese e dai miei compagni di classe ai tempi del liceo, proseguendo con coloro che hanno condiviso con me la mia pur breve esperienza in Seminario, fino a giungere ai miei colleghi di corso all’Università ed ora ai miei colleghi nella redazione del sito per cui scrivo. Ho cercato di contagiare ognuno di loro con il mio entusiasmo, spiegando i motivi per i quali ero diventato un giovane donatore periodico e quanto fosse bello compiere questo gesto anonimo e gratuito.
 Con il passare del tempo però anche il mio modo di incentivare il prossimo a compiere questo gesto è cambiato: ora non solo invito a donare il sangue, ma spiego anche quanto sia bello far parte dell’associazione, circostanza che mi ha permesso una notevole crescita personale. Ho sempre partecipato attivamente alla vita associativa, ricoprendo anche il ruolo di Rappresentante dei Giovani della mia sezione, veste nella quale ho preso parte anche a diversi Meeting Nazionali dei Giovani Fidas, e a numerosi corsi di formazione, che non solo mi hanno donato conoscenze in tema di trasfusione di emocomponenti, ma, soprattutto, mi hanno regalato nuovi amici. Il mio essere in Fidas mi restituisce ogni giorno più di quello che faccio, se devo mettere sulla bilancia il tempo dedicato al volontariato e quanto questo abbia giovato alla mia persona, non posso che essere davvero felice. Vivere l’associazione significa socializzare, scambiare esperienze e stringere legami di amicizia. Ogni incontro è per me un momento di crescita personale e maturazione, tutte queste esperienze vissute nel corso degli ultimi anni hanno donato alla mia persona più di quanto io abbia dato agli altri donando il sangue.
 Facendo rete, grazie anche alle nuove amicizie coltivate, vinco anche la pigrizia, e così anziché recarmi da solo al centro trasfusionale chiamo i miei amici: sono dell’idea che la donazione di gruppo sia più bella, si passa una mattinata insieme ed è davvero fantastico condividere (termine fin troppo utilizzato nell’era dei social!) l’esperienza della donazione, che arricchisce anche chi la compie. Per me la donazione e la sensibilizzazione verso il tema sono diventate una sorta di missione e quel che è certo è che continuerò a coinvolgere, anzi a travolgere, il prossimo con il mio entusiasmo perché con un semplice gesto si può aiutare chi è in pericolo di vita. Se uso questo scritto per raccontare la mia storia, lo faccio nella speranza che la mia testimonianza possa essere mezzo di sensibilizzazione verso la cultura del dono. Per me l’esempio è la miglior testimonianza ed è con l’immagine del braccio teso nell’atto della donazione che voglio sperare che quanto raccontato sia servito, in qualche modo, a mettere in circolo la solidarietà. Non scorderò mai l’emozione di essere stato in piazza San Pietro anni fa per il Giubileo del Donatore, e cerco sempre di fare mie le parole che papa Francesco ci riservò in quella giornata speciale: “Impegnarsi vuol dire mettere le nostra buona volontà e le nostre forze per migliorare la vita”.

Sardella Carlo

Un segreto

Il sangue è sempre sacro
che sia quello donato
o tutto quello gettato
nell’attentato di un massacro
 
Ti dice chi siamo
senza giri di parole
sa che vita conduciamo
è un segreto steso al sole
 
Fare per gli altri ha più valore
se non c’è una ricompensa
basta farlo per amore
perché non si riesce a stare senza
 
Sai, è il sangue che ci unisce
nelle nostre vite misteriose
è come uno scrigno e custodisce
il segreto per fare grandi cose
 
Gli antichi, giurando, se lo scambiavano
usavano la lama dei cortelli
perché a quei tempi già capivano
che, in qualche modo, ora saremo fratelli.

E se non è solo piastrine quello di cui hai bisogno,
a me avanza anche qualche sogno.

Timberlani Ermete Giorgio

Il filo rosso

Faccio una premessa: ho sempre considerato la donazione del sangue una iniziativa meritoria e preziosa per la salute di tutti noi.       Devo dire che ho avuto una esperienza personale che ha rafforzato questo mio convincimento.

Ero un funzionario della direzione generale dell’ Enel. L’ AVIS aveva programmato l’ invio periodico di una emoteca nel piazzale davanti ai nostri uffici.

L’ emoteca arrivava la mattina molto presto tanto che gli impiegati dovevano ancora arrivare, infatti il prelievo lo eseguivo con fattorini, autisti e uscieri.

Passato un certo numero di anni l’ AVIS mi comunicò che ero troppo anziano e così terminò la nostra collaborazione. 

Alcuni anni dopo mi trovai ad affrontare un problema molto grave. Mia moglie doveva essere operata e la clinica era in grave difficoltà per la mancanza di sangue. A questo punto mi rivolsi all’ AVIS quale vecchio collaboratore. Dopo poco tempo le sacche di sangue arrivarono e mia moglie poté essere operata.

Mi sembra pleonastico trovare una morale da un semplice episodio. Resta l’ importanza di un piccolo sacrificio per legare con questo leggero filo rosso tutti i nostri fratelli in sofferenza.

Una riflessione deve essere fatta.

Presi dai ritmi serrati che viviamo nella nostra società attuale non ci fermiamo a valutare che cosa separi la perdita di una mezz’ora della nostra giornata e la possibilità di salvare, in alcuni casi, la vita di una persona.

Basta pensare alle condizioni disperate delle popolazioni del terzo mondo dove le cliniche fatiscenti e di fortuna non sono certo in grado, per le terribili condizioni in cui operano, di organizzare una raccolta di sangue.

Basta pensare che poche fermate di una metropolitana ci bastano per raggiungere l’ emoteca prevista.

Per quanti mancano all’ appello le cause sono innumerevoli ma dobbiamo convincerci che quelle persone sono portatori di una assoluta mancanza di una informazione adeguata.

Penso che se un giorno uno di loro si troverà nella dolorosa situazione di avere una persona cara bisognosa di sangue, l’ arrivo della sacca, che gli auguro di tutto cuore, lo farà riflettere sul valore di questa iniziativa.

L’ unica cosa è che non potrà mai ringraziare il donatore, abbracciarlo e nemmeno stringergli la mano.

L’ anonimato è l’ aspetto che caratterizza i donatori e che nobilita ulteriormente il loro impegno.

Urbani Giuseppe

Un dolce dolcissimo

Stavo  seduto in sala d’aspetto , Giorgio, aveva appena ritirato il  modulo   per la visita e gli accertamenti , dallo sportello del triage del pronto soccorso e mi si avvicinò,
Papà, – codice verde-   c’è da aspettare , ah, dimenticavo, la signora dell’accettazione mi ha chiesto, visto il cognome, se fossi tuo figlio, io gli ho detto di si e  che eri con me, ti manda i saluti.
Grazie, rimani qui ,la  vado a salutare, torno subito.
-arrivando verso la sala del triage, avevo mandato avanti Giorgio e non mi ero fatto vedere, ora non potevo far altro che  farmi vedere.
-ciao Anna come va?
-Pino, ben rivisto!Pensionato fortunato! Chissà se noi ci arriveremo mai!
-ci arriverete ,ci arriverete
Giorgio era mio figlio, 17 anni   4° ginnasio , cresceva  bene, senza grandi fronzoli per la testa, né grandi voli pindarici, Studiava e non mi aveva mai dato, fortunatamente, grandi  problemi, buone compagnie e grandi sogni come tutti i giovani della sua età, ma la sua vera grande passione era: condivisa da un  folto gruppo di coetanei, il calcio.
Diceva di essere un piccolo campione, ( in verità non era tanto male ) ma io lo vedevo  già  proiettato verso l’università ,impegnato in qualche facoltà  tecnica come ad esempio l’ingegneria  o l’informatica visto  che in matematica era bravo, ne era appassionato e otteneva ottimi risultati.
Lo avevo accompagnato al campo, dove la squadra locale in cui  giocava,
si riuniva per allenarsi. Durante uno scambio di gioco, beccò una pallonata ad una mano.
Risultato: dolore, gonfiore ,quindi decisione  di fare un controllo radiografico per stare tranquilli ed eccoci qua in sala d’aspetto.
Io già sapevo come sarebbe andata a finire :contusione, leggera fasciatura, e qualche crema lenitiva per il dolore e il gonfiore che sarebbero spariti  nel giro di qualche giorno, ma non volevo contrariare Giorgio che  sicuramente , per spirito di contrarietà giovanile, non si sarebbe fidato della mia veloce diagnosi , perciò rimasi in silenzio accettando di passare almeno una buona ora affinché tutto fosse fatto.      -Giorgio
-si papà -vado a fumare, tanto c’è tempo perché ti chiamino
-ok, ti aspetto
Attraversai  l’area calda, dove arrivavano le ambulanze e mi trovai  all’aperto .
Fui piacevolmente  investito dall’aria fresca ,  ne respirai le essenze , poi  accesi la mia sigaretta.
Mi guardai intorno e lo sguardo si fermò sulla pineta che da un lato dell’ospedale occupa una va
Tra i rami dei grandi pini, intravidi il rapido movimento di uno scoiattolo nero, la pineta ne ospitava una nutrita colonia e non di rado li si vedeva  scorrazzare tra le auto del grande  parcheggio  situato in basso alla mia destra.
Conosco questo posto a memoria, potrei  camminare dentro l’intero complesso ad occhi chiusi ,senza  incontrare il minimo ostacolo perché questa , è stata la mia casa per quarant’anni.
Sono un infermiere, anzi  no, un ex infermiere, in quanto pensionato da quasi un anno.
Sono stato bene fra queste mura ,ho dato tanto ,ma ho ricevuto tantissimo, profondamente  grato agli anziani colleghi e  a tutti quelli che ho incontrato sul mio cammino, che hanno arricchito con il loro sapere e con la loro esperienza, il mio bagaglio  professionale, dandomi la possibilità e l’onore di donarlo a piene mani e con gioia a chi era malato e sofferente.
Nella palazzina di fronte è ubicata la centrale operativa del118.
Lì , ho lavorato per anni come infermiere soccorritore a bordo delle ambulanze  alternando  questa  attività (come tutti i colleghi della centrale operativa )  come  operatore alla consolle telefonica dove si ricevono le chiamate di soccorso e si smistano  mezzi e  personale per i vari interventi sul territorio.  Vorrei entrare a trovare gli ex colleghi ,ma non mi sembra il caso ora, in quanto dal parcheggio dell’emergenza,, mancano due
ambulanze ,sicuramente uscite per intervento, quindi reputo che in sala operativa siano un attimo indaffarati- meglio non disturbare.
Chiusi i cassetti delle nostalgie e dei ricordi  e finita la sigaretta, mi incamminai verso la sala d’aspetto.
Fatti pochi passi, captai il suono per me familiare, di una sirena intermittente in avvicinamento.
Era sicuramente una delle due  ambulanze che mancavano  dal parcheggio che tornava alla base

-chissà chi portava a bordo.
La sirena cessò il suo lamento  appena dopo l’ingresso nell’area ospedaliera sentivo il ruggire del motore  che si avvicinava .
Ero ancora nell’area calda e mi tirai da parte per non interferire nelle operazioni di scarico del paziente ,dal pronto soccorso erano usciti due colleghi per dare  assistenza ai colleghi in arrivo                                              Il mezzo ormai in lenta decelerazione “sfondò” le strisce di plastica pesante  che delimitavano l’area di arrivo delle emergenze.
Si aprirono i portelloni del mezzo e l’equipaggio estrasse dal vano la barella.
Su di essa un giovane di colore -agitava  un braccio   sanguinante fuori dalla copertina termica e si lamentava.  
La cosa che mi colpì , (ma questo mi aveva sempre incuriosito) fu il colore del palmo della mano, che  negli uomini di colore è  più chiara,  rispetto al pigmento corporeo, in questo caso mi sembrava addirittura pallida.
Ma questa era solo una mia impressione che non colmava comunque la mia  atavica curiosità, che rimaneva tale.
L’equipaggio dell’ambulanza uscì  fuori dal pronto soccorso per rimettere a posto il mezzo-li conoscevo tutti,Alberto,Rita ,Angelo

– con  ognuno di loro avevo fatto tanti interventi -colleghi bravi, preparati e molto affiatati, insomma una bella squadra.
Li salutai ad uno ad uno, abbracciai Alberto ,mio fidato autista (soprannominato Schumaker due) amico di mille avventure.
-Bella la vita da pensionato eh !  Esordì Rita
-come no! Non mi basta più il tempo!
-Ma smettila, aggiunse  Angelo, non vedi che sei  anche ingrassato come un maialetto!
-lo mandai a quel paese,(ma questo era vero ,avevo messo su qualche   
chilo di troppo -dovevo provvedere.)-piuttosto chi avete portato?
-un giovane  di colore che andava in bicicletta è stato investito da un furgone
-messo male?
-qualche frattura, probabile emoraggia interna, forse la milza, trauma cranico.
-che fai qui, nostalgia del lavoro?
-no, sono con mio figlio che deve fare una radiografia a una mano
ma niente di particolare.
Pino, se serve qualcosa siamo in centrale-dobbiamo rientrare.
Ci salutammo e tornai in sala d’aspetto dove Giorgio con il foglio in mano aspettava di essere chiamato
-Papà
-dimmi                                                                                            
-tu qua conosci tutti ,non potresti accellerare l’attesa?
-potrei sicuramente farlo, ma guardati intorno, pensi di avere qualche diritto in più rispetto alle persone che stanno aspettando da più tempo di noi e che forse  hanno problemi più seri del nostro solo per il fatto che conosco tutti e che ho lavorato qui dentro?
Giorgio non rispose, girò lo sguardo verso le persone che come lui aspettavano di essere chiamate e rimase in silenzio.
Da dove ero seduto , dietro la grande vetrata che separava gli ambienti, vedevo il corridoio delle stanze d’emergenza, su una di esse era accesa la luce rossa

– significava che là dentro, medici e  colleghi, erano impegnati con qualcuno in gravi condizioni ,forse con il giovane di colore arrivato da poco.
Vidi arrivare le “giubbe rosse” della rianimazione; i colleghi  erano così chiamati per il colore della  loro  divisa ,si infilarono  in quella  stanza velocemente, dietro di loro si chiuse la porta  automatica.
Poco dopo questa si riaprì  e  dalla stanza uscì la barella circondata dal personale con sopra ,come avevo sospettato, il giovane di colore , che poco prima era arrivato al pronto soccorso.
In fondo al corridoio girarono a destra, quel corridoio portava o in
rianimazione o verso le camere operatorie, in silenzio gli mandai un in bocca al lupo.
-Giorgio,
-dimmi pà
-torno fuori, vado a fumare, tu sta tranquillo, tanto manca poco
-bene pà, stò quà, ti aspetto.
Uscito fuori , volsi lo sguardo verso il parcheggio per  cercare la mia macchina, era ancora lì  anche se un po’ lontana , messa  però bene entro gli spazi consentiti e segnalati a terra, notai anche che  addirittura vi erano dei posti vuoti limitrofi al mio, cosa strana vista l’ora, ma i posti vuoti in quel parcheggio durano poco, infatti non avevo finito di pensare queste cose che arrivarono due auto, un SUV  color argento  e una indecifrabile auto nera, forse una vecchia punto, un po’ rumorosa a dir la verità  un rombo però non fastidioso ma particolare, che li occuparono, erano seguite da altri due mezzi, ma questi dovevano continuare la loro ricerca.
Dal SUV scese una persona con una grossa borsa che si avviò verso la palazzina dei servizi ,dall’auto nera ,un uomo e una donna con due bambini.
La donna indossava uno scialle rosso scuro che gli copriva la testa  e una lunga gonna colorata.
Attraversarono il parcheggio e si avvicinarono alla rampa di scale che
permetteva ai pedoni di arrivare al piazzale del pronto soccorso dove ero io-i due ragazzi li seguivano.
Sul piazzale arrivò prima l’uomo -era di colore  di grossa corporatura , indossava una giacca a vento grigia aperta sul davanti ,una maglia scura, pantaloni neri, mi arrivò ad un passo, si fermò e con un italiano maccheronico ma ben comprensibile mi chiese: scusa signore, dove  domando per incidente? Mio figlio scontrato con auto!
Capii che erano i genitori  del ragazzo arrivato da poco, gli indicai l’ingresso e dove dovevano chiedere.
La donna appena arrivata era in lacrime e ripeteva come una litani: Ibrhaim, ibrhaim….,arrivarono anche i bambini , una quindicina di anni il più grandicello, forse dieci il più piccolo che indossava un grosso maglione marrone e delle scarpe sicuramente più grandi di un paio di numeri rispetto ai suoi piccoli piedi.                    
Attraverso la vetrata  li vidi entrare e dirigersi subito verso lo sportello  dell’accoglienza. Anna la mia collega si mise a parlare con loro, arrivò anche Giovanni ,uno dei medici in servizio quel pomeriggio, parlarono per un po’, l’uomo si mise le mani nei capelli, non riuscivo a sentire le parole ma Giovanni, con una mano sulla spalla dell’uomo sicuramente stava cercando di rincuorarlo, la donna si aggrappò all’uomo i bambini restarono vicini , arrivò anche un inserviente con cui Giovanni parlottò velocemente, poi tutti si incamminarono lungo il corridoio, non capii  se diretti verso le sale d’aspetto della rianimazione o delle camere operatorie, perché non sapevo dove fosse stato portato in precedenza il ragazzo di colore.
Giovanni rientrò in una delle sale di emergenza e Anna riprese il posto allo sportello dell’accoglienza triage.
L’altoparlante  chiamò mio figlio e indicò  il numero della diagnostica dove doveva presentarsi  alla n° 3 tempo medio di attesa sei minuti-.
Ci avviammo lungo il corridoio di sinistra e arrivammo al blocco della radiologia . Nell’androne alcune persone sedute in attesa ,il visore digitale sulla parete indicava alla diagnostica  3 un tempo di attesa di 4 minuti  Giorgio sedette e io vicino a lui.
Squillò il mio cellulare;
-sì pronto,
-Pino, scusami se ti disturbo, è il centro trasfusionale, sono Antonella
-Antonella! Come stai?  è tanto che non ci si sente!
-Pino, io tutto bene grazie, qui invece abbiamo un problema
-che succede?
-ho già fatto quattro o cinque chiamate ,ma non sono riuscito a contattare nessuno tranne te
-dimmi
-dal data-base vedo che hai donato cinque mesi fa, quando c’è stato il terremoto
-si ,che succede ora?
-abbiamo una emergenza in sala operatoria e abbiamo una sola sacca di
zero negativo, sei disposto a donare?
-Chi stanno operando?
-un ragazzo di colore, emoraggia intera da trauma violento, asportazione di milza, puoi venire?
-sei fortunata ,sono qui in ospedale e sono anche lontano dai pasti, ti raggiungo tra cinque minuti!
-ok, grazie Pino, intanto preparo il materiale e provo a richiamare pure gli altri,
-ciao ,arrivo.
-Giorgio
-dimmi papà
-devo andare al centro trasfusionale ,quando hai finito aspettami al pronto soccorso ,non ci metterò molto
-va bene pa’.
Antonella mi aspettava nell’ambulatorio per i controlli ematici, io lungo il breve cammino mi ero già tolto il giaccone , già pronto a sottopormi ai  piccoli accertamenti di rito, prima della donazione.
Attesi i risultati chiacchierando del più  e  del meno con Antonella.
 Dopo un minuto la strisciolina di carta uscì dalla macchinetta, le analisi erano buone  e nella norma-potevo donare.
Andammo nella sala  prelievi e sedetti sulla comoda poltrona , la sala era vuota ,c’ero solo io. Tirai su maglia e camicia scoprendo l’avambraccio ,Antonella fece una rapida disinfezione, spruzzò il liquido anestetico all’altezza della vena perifeica che era già bella gonfia, laccio, ago e  nello spazio di un nulla, ero   collegato alla sacca che vedevo già riempirsi. Antonella mi portò anche la pallina di spugna con la quale ,spremendola nella mano a ripetizione, aiutavo il flusso sanguigno ad arrivare alla sacca più velocemente.
La porta dell’ambulatorio si aprì, Antonella mi lasciò e  andò incontro alle persone appena entrate: erano l’uomo di colore e la moglie.
Avevano sicuramente saputo che serviva del sangue per il proprio figliolo e si erano presentati al centro trasfusionale.
L’uomo mi guardò di sfuggita ,incrociammo lo sguardo per qualche istante, poi  si girò e si mise a parlare cn Antonella.

La porta a vetri che divideva l’ambulatorio era chiusa e non sentivo nulla di quello che si stavano dicendo, intravidi solo il gesto di Antonella che mi indicava con il braccio teso e il sorriso sulla bocca. Forse aveva detto loro che il sangue per il loro figlio era stato trovato e che il donatore ero io.
L’uomo  si girò di scatto verso di me, la donna gli si aggrappò a una spalla,
avevano gli occhi spalancati, l’uomo alzò una mano, cosa che interpretai tra il saluto e il ringraziamento, alzai la mano sinistra e risposi al suo gesto .
Ancora una volta  la mia curiosità si accese guardando il palmo della sua mano:chiarissimo  se messo  a confronto con il colore della sua pelle (ma questo è un altro discorso), torniamo a noi.
Antonella li prese e li fece accomodare dentro l’ambulatorio, per fare le analisi  prima di sottoporli alla eventuale donazione.
Per me arrivò un  giovane collega che non conoscevo che si occupò di recuperare la sacca che poi sarebbe volata in camera operatoria. Garzina, cerotto ed ero pronto per andare,
Rimasi seduto per un momento, poi lentamente mi alzai, l’equilibrio era buono.
Vidi Antonella intenta a scrivere, l’uomo  e la donna erano girati di spalle,  rispetto all’ambulatorio la sala ristoro era nella parte opposta,  lentamente senza farmi vedere vi arrivai e mi sedetti.
Dal thermos riempii un grosso bicchiere di the fumante  e vi aggiunsi due bustine di zucchero.
Squillò il cellulare, era Giorgio.
-Papà
-dimmi
-io ho finito e tu?
-anch’io, aspettami là , ti raggiungo tra un minuto
-bene aspetto.
Bevvi il the, anzi ne presi anche un’altro  bicchiere, indossai il giubbotto,
presi il corridoio esterno e andai verso la stanza degli infermieri per salutare il collega che mi aveva  assistito  nelle operazioni di prelievo.
.-Ciao  e grazie di tutto, buon lavoro
-niente figurati , grazie a te per essere venuto, alla prossima
-salutami Antonella, era impegnata
-sarà fatto !
Tornai da Giorgio, insieme  raggiungemmo la sala triage ,  Anna mi  fece entrare  subito  nella sala medica dove Giovanni, il giovane medico ,che salutai cordialmente prese  la lastra , la guardò un momento controluce poi delicatamente prese la mano di Giorgio,  la guardò palpando il gonfiore e:
-giovanotto , nulla di strano solo una contrattura distorsiva facciamo una leggera fasciatura, per il dolore prendi delle bustine analgesiche ,una ogni dodici ore, per il gonfiore una bella cremina, poi papà sa come fare e che cosa comprare, in bocca al lupo!
-grazie dottore gentilissimo disse Giorgio
-di nulla, solo dovere
Fatta la fasciatura, uscimmo, salutammo Anna e ci  dirigemmo verso il parcheggio.
Mi veniva da sorridere, non per essere presuntuosi, ma la diagnosi che avevo pronosticato per  l’infortunio di Giorgio era esatta ,ma mai fare il medico di se stessi, la cosa andava controllata, tutto era filato liscio  ed ero contento.Ero anche contento per quello che avevo fatto, ogni volta che donavo  mi sentivo orgoglioso e soddisfatto, appagato anche perché stavolta sapevo a chi sarebbe andato il mio sangue, speravo che grazie a questo il giovane di colore ne traesse giovamento, pensai anche ai miei pregiudizi: non ne ho, per me rossi, gialli verdi e neri sono tutti uguali, siamo tutti uguali.
-papà
-dimmi Giò
-perché al centro?
-ho fatto una trasfusione per un caso urgente, sai che ho  l’RH  negativo e quando serve mi chiamano
-si lo so  ,tutto bene?
-sì pà tutto ok, grazie
L’aria era gradevole, la primavera ormai era alle porte e i primi giorni di
Marzo non erano stati inclementi, Il pomeriggio era stato lungo, cominciavo ad avere fame, andammo a casa.
Appena rientrati, risquillò il cellulare
-si, pronto
-Pino sono Antonella                                                                                  -Antonella scusami se non ti ho salutato ,ti ho visto impegnata con quei signori  e comunque non mi andava di incontrarli, perché mi è sembrato di capire che tu gli avessi detto qualcosa  del perché della mia presenza al centro ,comunque dimmi  cara ,problemi?
-tranquillo ,nessuno, ma senti non ti manca nulla?
-Non credo, perché?
-perché ho qua’ tra le mani la tua tessera sanitaria l’ha  trovata l’uomo di colore quando si è seduto sulla tua stessa poltrona dove  eri tu
-a proposito, hanno donato?
-si, lo hanno fatto ma non sono compatibili col figlio, comunque la tua sacca è stata utilizzata e ho rintracciato  per fortuna  altri due donatori R.H. Negativi, ah, notizia di corridoio, pare che l’intervento al ragazzo sia andato bene ora è in rianimazione, una sola sacca è bastata
-bene sono contento per lui, Antonella domani vengo a prendere la tessera ti ringrazio e dovessi incontrarlo, ringraziami anche chi l’ha trovata, passa una buona serata
-d’accordo, passate  una buona serata anche voi,  a domani
 Cercai  di  capire come potevo aver perso la tessera, visto che la porto sempre nel portafoglio ,ripercorsi mentalmente il film  dei miei spostamenti  durante la giornata  e  scoprii come era potuto succedere:quando stavo accompagnando  Giorgio in ospedale, mi ero fermato a comperare le sigarette a un distributore automatico avevo tirato fuori la carta sanitaria e dopo averla  usata l’avevo messa nella tasca del giaccone, che ricordo aver poggiato in sala trasfusioni sulla poltrona vicina  alla mia, sicuramente là si era sfilata dalla tasca.Comunque tutto è bene quel che finisce bene
Mia moglie nel frattempo aveva “catturato” il figlio, un po’ contrariata per quanto gli era successo ,però visto che non era nulla di grave tornò serena come sempre, cenammo, e passammo una bella serata.
Era arrivata anche Pasqua, eravamo alla vigilia,  Nadia mia moglie, era indaffarata  in cucina, da un paio di giorni si assaporavano buoni profumi, Giorgio ,sotto vacanze, era fuori con gli amici, sarebbe tornato per pranzo, io facevo il pensionato, belle dormite, giornale, T.V. , passeggiate in montagna ,qualche serata con gli amici e anche un paio di battute di pesca nel nostro meraviglioso fiume che non corre molto lontano da dove abitiamo.
Tutto il resto del tempo è dedicato agli ordini di mia moglie (che cominciano a diventare troppi) e a tutte quelle piccole incombenze casalinghe  e che non mancano mai.
Insomma mi vien da dire che quasi quasi è meglio tornare al lavoro, ma sto scherzando ,  perché  è  impagabile la gioia di passare tanto tempo insieme alla famiglia ,  coltivare i propri hobby   e  soprattutto non essere più schiavo dei rigidi  orari  e  dal  suono della sveglia , che ha traslocato dal mio comodino e ora  troneggia su un mobile della camera da pranzo.
Trillò il campanello del portone

– era Giorgio
-al citofono dissi:ma non hai le chiavi?
-ho le mani impegnate
Aprii la porta di casa e aspettai che salisse, portava un grosso vassoio
avvolto  nel rituale foglio di cellophan,
-che cosa hai comprato?
-è un dolce papà
-non l’ho comprato, me lo ha consegnato sotto al portone un signore di colore, è per te ,c’è anche un biglietto.
Incuriosito ,presi il vassoio dalle mani di mio figlio e lo poggiai sul tavolo in cucina, staccai con cura dallo skotc il bigliettino ,lo aprii e lessi una frase che mi riempì di grande emozioni  .
Era  scritto in stampatello  con una grafia insicura ,costruita con un italiano non perfetto, che però esprimeva compitamente tutto quello che voleva dire :  Dolce per festa

– tu buono uomo

– bene Ibrahim  – grazie per mia famiglia – grande Pasqua.
-Giorgio, hai detto che te lo ha consegnato sotto al portone?
-si papà, era un signore di colore, ti volevo chiamare ma lui ha detto che 
aveva fretta ed è andato via.
Andai  in sala  da pranzo e aprii il balcone che affacciava sulla piazzetta e la strada sottostante, cercai di vedere in giro tra la gente se riuscivo ad inquadrare l’uomo di colore che già mi era noto ,guardai verso il bar, verso l’edicola, ma la mia ricerca fu vana, l’uomo sembrava svanito nel nulla, fui attratto però da un’insolito rumore che mi sembrava già di aver sentito  in qualche altro posto.
Vidi la macchina nera che attraversava la piazzetta, era il suo particolare rombo che mi aveva colpito -era la macchina nera che avevo visto nel parcheggio dell’ospedale-era lui!
Girò verso sinistra, mi passò sotto al balcone, andava verso la nazionale, avrei voluto attirare la sua attenzione, ma non sapevo come fare, dal finestrino alzò un braccio  al vento agitandolo in segno  di saluto, il palmo della sua mano era  chiaro  come fosse incastonato  nella sua pelle scura, anche la mia mano salutò e rimase a lungo alzata, l’auto sparì dietro la curva e il suo rombo lentamente si affievolì.
In cucina andammo tutti a scoprire il dolce appena arrivato, era a forma di cuore, si intravedeva dell’ananas ricoperto dal cioccolato e il tutto era contorniato di grandi datteri caramellati, fu messo subito in frigo, e sarebbe stato uno dei dolci della nostra Pasqua.
Pensai per un po’ a come l’uomo di colore fosse arrivato a me, non ci misi molto a collegare tutte le cose, la tessera sanitaria, qualche imbeccata da Antonella, qualche domanda ai colleghi del centro trasfusionale e il gioco era fatto.
Comunque la cosa non mi importava più di tanto, ero contento di aver ricevuto quel regalo anzi a dirla tutta mi sentivo soddisfatto e felice anche perché dal biglietto ,apprendevo che Ibrhaim stava bene.
Rientrai, chiusi il balcone e ci sedemmo a pranzo.
Godemmo delle prelibate pietanze che Nadia aveva  con sapienza  preparato per l’occasione (in cucina era da 10 e lode), io preparai un buon caffè e Giorgio tirò fuori dal frigo il dolce mettendolo  al centro del tavolo,Nadia prese tazzine e piattini per il dolce.
Mentre sorseggiavamo il caffè, Nadia mi chiese:
-alla vista sembra eccellente, chi lo manda?
-è una storia un po’ lunga, dopo te la racconto
-mamma, l’ha portato un uomo di colore, ha detto che era amico di papà!
-non è neanche un conoscente, ho fatto solo qualcosa per lui e mi ha voluto ringraziare  in questo modo!
Nadia prese  l’iniziativa e fece le porzioni : crema, cioccolata ananas e splendidi datteri caramellati, per chiudere il pranzo, nulla di meglio !
Ad ogni boccone, ognuno di noi assentiva alla bontà degli ingredienti, le porzioni sparirono presto, Giorgio e Nadia ne furono entusiasti.
-devo dire che è buonissimo, disse mia moglie ,non è complicato da rifare, ci farò un pensiero!
La parte avanzata fu rimessa in frigo
-mamma, papà ,io esco, ci si vede a cena  e mi raccomando, non fate sparire la mia porzione di dolce ,golosi !
Quel dolce era piaciuto a tutti, questo mi faceva un immenso piacere .
Per me, non era stato solo un dolce, era stato un dolce “dolcissimo”,ogni sua piccola parte mi regalava un pensiero, un pensiero che mi portava a parlare di integrazione, di solidarietà, di accoglienza ,di reciprocità ,
di riconoscenza, di rispetto, di buona convivenza , di amicizia, di cultura, di conoscenza delle etnie  e   degli uomini, di qualunque Razza e colore. Questo però, è un altro discorso, un discorso con qualche rosa, ma tantissime spine ,che molti, tanti, troppi non intraprendono e nemmeno vogliono sentire.
Abbracciai mia moglie e mano nella mano andammo sul balcone a fumare, un’occhiata distratta al viale, dove avevo visto per l’ultima volta l’auto nera  e uno sguardo d’insieme a quanto ci circondava, il tutto,  sotto un sole di Marzo che non scaldava solo l’aria di primavera, ma anche l’animo. In un vaso facevano capolino alcune viole, in alto in un cielo sereno, di un inteso azzurro il garrire di alcune rondini .
E’ stata una splendida giornata, in bocca mi permane il sapore dolce di un dolce “dolcissimo” stasera ne mangerò altro, domani sarà Pasqua.

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Dumane vache a duna’ <

Auarde ‘llì ‘occe, che   cale piane piane
e  ‘llù file  rosce  c’arrive  jò li vane,

occe  de core che nen tè  nu nome
occe d’amore  sinza cugnome

occe de sangue che dà la speranze
tra la morte e la vite,de culmà la destanze,

occe sinza bandire e sinza nazione
che nen tè cunfine né relegione.

Vulesse sapà, c’hiaè stu dunatore,
che c’ìargale sta sacche,cchiù lucende dell’ore,

vulesseje dice nu “Grazzie de core”
che vè da na mamme e da nu genetore,

che vate nu fije,  c’arpije lu  culore
e che grazie a  ‘llì occe, forse  n’zè more.

Ma jè  ‘mò lu sacce  come lu pozz’argrazzià:
dùmane, n’dà  fatte asse, vache a  dunà !!!

Domani vado a donare
Guardo quelle gocce , che scendono piano piano
e quel filo rosso che arriva laggiù alle vene

gocce di cuore che non hanno un nome
gocce d’amore senza cognome,

gocce di sangue che danno la speranza
tra la morte e la vita di colmare la distanza,

gocce senza bandiere e senza nazione
che non hanno confine né religione.

Vorrei sapere chi è questo donatore,
che ci regala questa sacca più lucente dell’oro,

gli vorrei dire un “Grazie di cuore”
che viene da una mamma e da un genitore,

che vedono un figlio, che riprende il colore
e che grazie a quelle gocce , forse non muore .

Ma io ora , lo so come lo posso ringraziare:
                 domani, come ha fatto lui, vado a donare  !!!